La grande abbuffata

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Approfondimento a cura dell’Osservatorio di Libera Piemonte.

Parliamo di vere e proprie Agromafie, per la diffusione sul territorio nazionale e per il volume d’affari stimato di circa 12,5 miliardi di euro l’anno, “la cui crescita ed espansione appaiono supportate dall’inadeguatezza del sistema dei controlli e della comunicazione dei dati e delle informazioni, sia con riferimento alla fase dell’importazione dei prodotti agroalimentari, sia con riferimento alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita”. E’ ciò che afferma la Coldiretti nel 1° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia, ri-presentato a Livorno il 10 settembre insieme all’Eurispes, istituto di studi politici, economici e sociali, dopo la prima tappa a Roma nel mese di giugno.

Viene affrontato, per la prima volta, il fenomeno della criminalità organizzata che agendo nel settore agroalimentare crea un vero e proprio business parallelo e arriva sulle tavole degli italiani, riducendo la qualità dei prodotti, aumentando i prezzi e danneggiando al contempo “le imprese impegnate a garantire gli elevati standard del Made in Italy alimentare”.

Tra i principali reati attribuibili alle organizzazioni mafiose nel settore dell’agricoltura troviamo i furti di attrezzature e mezzi agricoli, l’abigeato, le macellazioni clandestine, il danneggiamento di colture, l’usura e il racket estorsivo, l’abusivismo edilizio, il saccheggio del patrimonio boschivo, il caporalato e le truffe nei confronti dell’Unione Europea.

I tentacoli della mafia agricola si estendono principalmente nei territori del sud Italia, dove la difficoltà di accesso al credito per le imprese, causata anche dalla congiuntura economica attualmente poco favorevole, spinge gli imprenditori a trovare nuove forme di finanziamento cadendo, sempre più spesso, nel circolo vizioso del prestito a strozzo.

Il controllo territoriale viene svolto con modalità simili in ogni region
e: in Calabria la ‘Ndrangheta “rivendica il proprio dominio sulle attività agricole e sulla pastorizia e, allo stesso tempo, si ingegna per realizzare frodi ai danni della Comunità Europea”, in Campania la Camorra investe “capitali illeciti acquistando aziende agrarie, vasti appezzamenti di terreno e diversi caseifici”, in Sicilia Cosa Nostra tenta di infiltrarsi nel grande mercato ortofrutticolo di Vittoria, in provincia di Ragusa, mentre la Basilicata è “al centro di episodi violenti e criminosi che colpiscono in particolar modo il settore agricolo.”

Viene anche sottolineato il massiccio radicamento nel nord Italia, dove risulta localizzata “la parte più cospicua dell’industria di trasformazione alimentare per volume di produzione e fatturato” e dove ha luogo “la serie innumerevole di frodi commesse a danno dai consumatori attraverso quello che potremmo definire il “furto” delle identità materiali e immateriali dell’autentico Made in Italy”.

Si chiama Italian sounding “la forma più diffusa e nota di contraffazione e falso Made in Italy nel settore agroalimentare. Sempre più spesso, la pirateria agroalimentare internazionale utilizza, infatti, denominazioni geografiche, marchi, parole, immagini, slogan e ricette che si richiamano all’Italia per pubblicizzare e commercializzare prodotti che non hanno nulla a che fare con la realtà nazionale. A livello mondiale, le stime indicano che il giro d’affari dell’Italian sounding superi i 60 miliardi di euro l’anno, cifra 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari.”

Si potrebbero fare numerosi esempi, il finto Parmigiano Reggiano venduto in Spagna, l’olio prodotto nel Maryland e denominato “Pompeian olive oil” che non ha nulla a che fare con i famosi scavi. L’elemento comune di questi esempi di contraffazione “è la spinta motivazionale da cui tali comportamenti traggono origine e si diffondono a livello globale” consistente “nell’opportunità, per un’azienda estera, di ottenere sul proprio mercato di riferimento un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza, associando indebitamente ai propri prodotti valori riconosciuti ed apprezzati dai consumatori stranieri, il vero Made in Italy agroalimentare, in primis la qualità”.

Nel 2009 il nostro paese ha importato materie prime per 27 miliardi di euro.

Queste materie prime vengono classificate come importazioni temporanee e saranno quindi rivendute sul mercato estero dopo esser state trasformate, lavorate, perfezionate in qualche modo.

Si legge nel rapporto che, “queste merci, pur contenendo prodotti agricoli non italiani, data l’attuale normativa, possono essere rivendute all’estero con il marchio Made in Italy.” Si stima che almeno un prodotto su tre di quelli importati e trasformati dal nostro paese per il settore agroalimentare, sia poi venduto in Italia e all’estero con il marchio Made in Italy.

“Ma a valutare l’entità del fenomeno solo sulle importazioni temporanee tende a sottostimarlo per due sostanziali motivi: da un lato, “sono le imprese a poter decidere di dichiarare alle dogane se le loro importazioni sono temporanee o definitive; se le dichiarano come temporanee ottengono dei vantaggi fiscali che possono non valere il rischio di essere smascherate dai consumatori come aziende i cui prodotti non sono al 100% Made in Italy; dall’altro lato, le importazioni possono essere dichiarate temporanee solo se i prodotti vengono poi riesportati; di conseguenza, valutando l’entità del fenomeno solo su di esse, non si terrebbe conto di tutti quei prodotti importati dall’estero, trasformati in Italia e venduti sul nostro territorio nazionale che, data l’attuale normativa, possono fregiarsi del marchio Made in Italy.”

Sono numerosissimi i prodotti dell’agricoltura e dell’industria per i quali non è obbligatorio indicarne l’origine, rendendone di fatto impossibile la tracciabilità.

Un esempio su tutti: “nel solo 2010 l’Italia ha importato dall’estero circa 10.004 tonnellate di pomodori freschi o refrigerati, il cui controvalore economico supera i 12 milioni di euro (esclusivamente importazioni definitive). La merce importata proviene prevalentemente da Israele e Marocco. Complessivamente il controvalore economico delle importazioni di pomodori freschi e refrigerati dai due Paesi è pari a circa 11 milioni di euro.” I prodotti importati sono destinati prevalentemente alle città di Savona e Torino mentre il principale paese di importazione risulta essere la Cina.

“All’interno della filiera agro-alimentare, l’agricoltura rappresenta l’anello debole, con il minor potere contrattuale e con gli utili più bassi, tra tutti gli attori che vi operano.”

Per combattere la grave situazione in cui versa il comparto agroalimentare, Coldiretti propone la creazione di “una filiera agricola, italiana e firmata: completamente italiana, perché tutti i processi devono avvenire in Italia, con prodotti rigorosamente italiani, gestita – quanto possibile lungo tutte le fasi – principalmente dagli agricoltori; firmata perché si tratta di una filiera i cui prodotti sono caratterizzati dai tratti distintivi propri dei luoghi di origine e produzione…”

Coldiretti prosegue dicendo che l’attuazione di questo progetto porterebbe alla costruzione di un patto di fiducia con i consumatori, che riporterebbe l’agricoltura italiana a ricoprire un posto di primo piano, non solo all’interno della filiera, ma anche nel panorama economico.

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