Il “caso” Rivarolo Canavese: leggiamo le carte per fare chiarezza

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Forse è necessario fare un po’ di chiarezza attorno a quanto è successo a Rivarolo Canavese, uno dei due comuni piemontesi sciolti per infiltrazione mafiosa, a seguito dell’inchiesta Minotauro del giugno del 2011.

Avevamo già una volta cercato di spiegare le ragioni che stanno dietro la scelta presa dal Consiglio dei Ministri, nel maggio 2012,  di accogliere la relazione prefettizia e chiedere il commissariamento di Giunta e Consiglio Comunale.

Lo avevamo fatto a seguito dell’iniziativa di Fabrizio Bertot, ex primo cittadino  di Rivarolo, che aveva tappezzato il territorio con manifesti che recitavano quanto segue : “Rivarolo non doveva essere commissariata. Per l’ex Ministro Cancellieri è stato facile combattere la mafia… dove non c’è, dove non c’è stata e, per quel che mi riguarda, non ci sarà mai!”. (Leggi l’articolo pubblicato a luglio)

Ma ora crediamo sia necessario ritornare nuovamente sulla vicenda, a seguito dell’articolo pubblicato su Panorama dal titolo “ Chi risarcirà i marchiati di Rivarolo”. In sostanza il pezzo insiste sull’inopportunità di procedere allo scioglimento del comune, decisione ancor più incomprensibile – secondo la tesi proposta dall’autrice del pezzo – per l’esito processuale che ha coinvolto Antonino Battaglia, ex Segretario Comunale coinvolto nel processo Minotauro.

Nel pezzo, per supportare la tesi dell’inopportunità dello scioglimento, si scrive che: “secondo  la Cassazione Battaglia ha commesso al massimo un “illecito elettorale”.

Un’analisi  limitata rispetto a quanto scritto dalla Suprema Corte. Per questo abbiamo deciso di leggere quanto scritto in questa sentenza per cercare di capire perché, nei confronto di Battaglia, “Si impone peraltro l’annullamento della sentenza con rinvio ai fini della rideterminazione della pena, correlata alla operata riqualificazione”.

L’ex segretario “incassa” la derubricazione del reato commesso da 416 ter ( voto di scambio politico mafioso) voto di scambio semplice, quindi reato elettorale.

Sì, Panorama ha ragione a dire che si tratta di un illecito elettorale, ma tralascia molti elementi.

La decisione di derubricare il reato è frutto di un’interpretazione del nuovo 416 ter, approvato nel nostro ordinamento nel 2014, quindi dopo la commissione del reato di Battaglia. Si legge, nel merito, quanto segue “In conclusione deve ritenersi che nel caso di specie, nel quale, secondo la ricostruzione della Corte territoriale, non vi fu, a fronte della promessa, effettiva erogazione della somma richiesta, non risulta ravvisabile il reato contestato nella formulazione vigente al momento della condotta”.

In sostanza, l’imputato non è stato condannato per 416ter perché, al momento della commissione del reato, la norma esistente prevedeva lo scambio voti a favore di denaro, mentre nella nuova formulazione è sufficiente che ci sia la promessa del pagamento.

Ma quale sarebbe la condotta di Antonino Battaglia? Nelle carte si ricostruisce il “patto” siglato dallo stesso Battaglia e da Macrì ( anche per lui è il reato è stato derubricato) con il Giuseppe Catalano, boss della ‘ndrangheta a Torino, per portare voti a Fabrizio Bertot, candidato alle Europee del 2009.

Quali voti? I voti della ‘ndrangheta, appunto. E l’ex segretario era consapevole a chi stesse chiedendo aiuto per l’elezione di Bertot. E non lo diciamo noi, ma la Corte di Cassazione che sul punto precisa: “ la ricerca dei voti costituiva il precipuo interesse dell’azione e che peraltro fin dall’inizio era stata individuata quella rete dei calabresi, con la consapevolezza che la stessa avesse implicazioni malavitose, legate a quel tipo di fratellanza”.

Lo stesso Antonino Battaglia, intercettato nel pranzo elettorale al Bar Italia (a cui ha partecipato lo stesso Fabrizio Bertot), sede operativa della ‘ndrangheta a Torino, si riferisce a Catalano chiamandolo “Don”, confermando di sapere la caratura criminale dell’interlocutore.

Per queste ragioni, la Suprema Corte conferma la ricostruzione fatta in Appello scrivendo nero su bianco che: “non meritano censure le conclusioni formulate dalla Corte territoriale in ordine alla conclusione del patto elettorale, consistito nella promessa di denaro in cambio di voti, patto ascrivibile sia al Battaglia sia al Macrì”.

Il processo, in sostanza, non è riuscito a provare che la promessa di 20mila euro fatta dai due sia stata effettivamente mantenuta. Per questo, con la vecchia formulazione del 416 ter, i due non possono essere condannati per voto di scambio politico mafioso ma per voto di scambio semplice.

Fabrizio Bertot, invece, mai indagato per nessun tipo di reato, è stato il  beneficiario del patto . Presente al pranzo elettorale tenuto al Bar Italia, con il ghota della ’ndrangheta, secondo la sentenza di Cassazione era consapevole del bacino elettorale a cui stava chiedendo sostegno perché era “interessato ad avvalersi della rete dei calabresi e peraltro consapevole per sua ammissione del fatto che laria Giovanni era a sua volta un noto malavitoso.”

 

 

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