Un delitto eccellente, per lungo tempo dimenticato. Per l’unico magistrato assassinato dalle mafie nel nord Italia esiste una verità parziale. Dopo 40 anni, sono molte le ombre che si stagliano sull’omicidio di Bruno Caccia.

 

Il 26 giugno del 1983, gli italiani si sono recati alle urne per rinnovare i due rami del parlamento. Una giornata importante per la nostra Repubblica, sconvolta da un fatto di sangue che irrompe nelle cronache.

Intorno alle 23, Bruno Caccia esce di casa per fare una passeggiata con il proprio cane, come sua abitudine. Apre il portone del civico 9 di via Sommacampagna, nella zona pre-collinare di Torino. Percorre poche decine di metri, quando viene raggiunto da una scarica di proiettili. Due o più persone, a bordo di una Fiat 128 verde, sparano dall’abitacolo, colpendolo. Uno di loro scende e lo finisce, sparandogli a bruciapelo. Bruno Caccia, procuratore della Repubblica di Torino, muore a 66 anni, su un marciapiede a pochi passi da casa sua.

 

Magistrato rigoroso ed integerrimo, protagonista della lotta al terrorismo, con la sua direzione la Procura di Torino aveva condotto importanti inchieste contro corruzione, mafie e illegalità.

La prima pista seguita dagli inquirenti è quella dell’esecuzione terroristica, per le rivendicazioni fatte arrivare ai maggiori quotidiani italiani. Il primo depistaggio, perché Br e Prima Linea, smantellate dall’opera inquirente di Caccia, negano di aver commesso il delitto.

Esclusa la matrice terroristica, gli inquirenti puntano su quella mafiosa. Negli anni ’80, a Torino due gruppi criminali si contendevano il territorio: i Cursoti, gruppo mafioso originario di Catania indipendente da cosa nostra e i calabresi, gli uomini della ‘ndrangheta.

Dopo una guerra mafiosa che ha lasciato sul campo decine di vittime, i due clan trovano un equilibrio, spartendosi gli affari e, a tratti, collaborando. In quegli anni, proprio per le inchieste condotte dalla procura di Torino, il gruppo dei catanesi è fortemente in difficoltà. Molti degli affiliati sono in carcere, lasciando così terreno alla ‘ndrangheta che riesce così a dominare in città.

E proprio per la collaborazione con i servizi segreti di Francesco Miano –  detto Ciccio, capo dei cursoti, all’epoca del delitto in carcere – che le indagini subiscono una svolta decisiva. Ciccio Miano, dotato di un registratore, inizia a domandare ai compagni carcerati notizie sull’omicidio del procuratore Caccia. Tra le registrazioni fatte c’è anche quella a Domenico Belfiore, giovane e potente rampollo della ‘ndrangheta sotto la Mole, anch’egli recluso. Registrato, ammette le responsabilità del delitto, confessando a Miano che “Per l’omicidio Caccia dovete ringraziare solo me“. È la svolta nelle indagini.

Domenico Belfiore, con altri due soggetti, viene rinviato a giudizio per l’omicidio di Bruno Caccia.

Nel 1989, a Milano, inizia il processo. Dopo 5 gradi di giudizio, Domenico Belfiore, nel 1992 viene condannato alla pena dell’ergastolo per essere il mandante dell’omicidio. Il movente, ricostruito dalla giustizia, punta sul pericolo rappresentato dalla ‘ndrangheta con Bruno Caccia a Capo della Procura. Dovevano eliminarlo, convinti che al suo posto sarebbe stato nominato un magistrato a loro vicino.

Domenico Belfiore, infatti, grazie al ruolo esercitato da Francesco Gonella, mente finanziaria del gruppo, poteva vantare rapporti privilegiati con alcuni magistrati operanti a Torino.

Condannato il mandante, per anni, sul caso di Bruno Caccia, unico magistrato assassinato dalle mafie nel nord Italia, scende l’oblio.

La giustizia ha individuato il mandante, ma non gli esecutori e nemmeno il gruppo di potere che ha “armato” la ‘ndrangheta. Possibile che, Domenico Belfiore, all’epoca dei fatti trentenne, abbia potuto organizzare da solo un delitto di questo livello?

Nel 2013, Paola, Guido e Cristina, i figli del procuratore, scrivono una lettera pubblica alle Istituzioni, affinché si facesse il possibile per raggiungere la verità.

Come Libera, abbiamo cercato di contribuire a questa ricerca, accompagnando la famiglia in questo percorso e realizzando un documentario, prodotto dal Comitato Beni Confiscati Libera Piemonte, dal titolo: “Bruno Caccia, una storia ancora da scrivere“.


La battaglia per raggiungerla, la verità, è stata lunga e tortuosa. Accompagnati dalla tenacia dell’Avvocato Fabio Repici, la famiglia chiede alla procura che vengano riaperte le indagini, presentando elementi per investigare sul ruolo di Rosario Pio Cattafi e Demetrio Latella. La tesi presentata a Milano individua l’urgenza di eliminare Caccia per quanto stava scoprendo nel mondo del Casinò di Saint-Vincent, usato come lavanderia dalle mafie per ripulire il denaro frutto dei sequestri di persona. La Procura di Milano, fortemente contraria a questa tesi, ne chiede più volte l’archiviazione. Archiviazione a cui la famiglia si oppone.

Ma c’è una svolta, nel 2015. La squadra mobile di Torino, su mandato del Pm Marcello Tatangelo, percorre una pista investigativa già esplorata anni prima. Rocco Schirripa, uomo di ‘ndrangheta legato a Domenico Belfiore, è per gli inquirenti coinvolto nel delitto di Bruno Caccia.

Il 23 dicembre del 2015, Rocco Schirripa viene arrestato, con l’accusa di essere uno degli esecutori materiali di Bruno Caccia. Dopo 33 anni, si apre un nuovo processo per scrivere la verità sul caso.

Nel 2022, la Cassazione conferma le responsabilità di Rocco Schirripa nell’omicidio di Bruno Caccia. L’uomo ha preso parte al delitto, anche se la giustizia non riesce a individuare quale ruolo abbia avuto.

Abbiamo seguito interamente il processo Milanese, per raccontarlo, convinti che fosse un’occasione irripetibile per scrivere tutta la verità attorno al delitto del Magistrato.


Eppure, anche questo processo non è stato in grado di dissipare tutte le ombre che, ancora oggi, si stagliano sull’assassinio del procuratore.

Per il magistrato rigoroso ed integerrimo, capace di scoperchiare il potere delle mafie in Piemonte e i legami che queste sono state in grado di tessere con settori insospettabili della società, non è ancora stata scritta tutta la verità, dopo 40 anni.

 

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