La corruzione in diritto indica la condotta propria del pubblico ufficiale che riceve, denaro (detta tangente) o altre utilità che non gli sono dovute, creando spesso un danno economico.

La corruzione è spesso presente nelle gare di appalti pubblici e privati (infrastrutture pubbliche e non) soggette di solito a bandi d’asta rivolti a ridurre i costi per effetto della libera concorrenza tra i partecipanti.

In questo senso la corruzione porta alla violazione di simili norme creando un danno economico alla collettività o al privato per mancata riduzione dei costi se non addirittura una lievitazione di questi e dei tempi di completamento del lavoro sino al caso limite di incompiutezza.

Nella corruzione il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio percepiscono l’utilità in seguito a un accordo con il privato, viceversa, nella concussione il pubblico ufficiale sfrutta la propria posizione di supremazia o potere per costringere o indurre il privato a corrispondere o promettere denaro o altre utilità.

Le due fattispecie criminose sono l’una l’opposto dell’altra.

Qualifiche soggettive

1) PUBBLICI UFFICIALI

L’art. 357 c.p., nella formulazione attuale, sancisce che agli effetti della legge penale, sono p.u. coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria e amministrativa; la norma precisa che deve ritenersi pubblica la funzione disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della p.a. o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.

Il secondo comma delinea i connotati tipici della pubblica funzione amministrativa, stabilendo che questa è disciplinata da norme di diritto pubblico o da atti autoritativi e si sostanzia nell’esercizio alternativo di poteri DELIBERATIVI, AUTORITATIVI, CERTIFICATIVI o RAPPRESENTATIVI.

I soggetti investiti della funzione LEGISLATIVA sono quelli che risultano coinvolti nel processo legislativo, secondo le competenze stabilite dalla Costituzione.

Esercitano la funzione GIUDIZIARIA i giudici, togati e onorari, i p.m., nonché coloro che svolgono un’attività strettamente collegata a quella consistente nello iusdicere.

Per quanto attiene all’esatta perimetrazione nella funzione AMMINISTRATIVA, si ritiene che rientrino nel concetto di poteri DELIBERATIVI quelli che contribuiscono a formare la volontà della p.a.; con la locuzione poteri AUTORITATIVI si farebbe riferimento non solo ai poteri coercitivi in senso stretto, ma in generale a quel ventaglio di poteri discrezionali al cui cospetto il consenso del destinatario è irrilevante ai fini della produzione degli effetti connessi all’attività amministrativa. I poteri CERTIFICATIVI si concretizzerebbero nell’esercizio di attività dotate di una peculiare efficacia probatoria.

2) INCARICATO DI UN PUBBLICO SERVIZIO

L’art. 358 c.p., attualmente, definisce l’incaricato come colui che, a qualunque titolo, presta un pubblico servizio, precisando che per esso deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione , ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni d’ordine e della prestazione di opera meramente materiale.

3) ESERCENTE UN SERVIZIO PUBBLICO

L’art. 359 c.p., stabiliva e stabilisce, che appartengono a tale categoria i soggetti privati che esercitano professioni forensi, sanitarie o altre il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando della loro opera il pubblico sia per legge obbligato a valersi, nonché i privati che, non esercitando una pubblica funzione né prestando un pubblico servizio ne adempiono uno dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della p.a.

Ai fini della configurabilità di alcuni reati (peculato, concussione, corruzione) l’art. 322-bis c.p. – introdotto dalla Legge n.300 del 2000 – ha equiparato ai pubblici ufficiali e agli incaricati taluni funzionari comunitari e membri delle istituzioni comunitarie.

 

La legge Severino cd. Anticorruzione

La l. 6.11.2012, n. 190 ha riformato l’intero assetto dei reati di corruzione previsti dal nostro ordinamento, attraverso in particolare: l’introduzione di una fattispecie generale di corruzione per l’esercizio della funzione, in sostituzione della precedente figura della corruzione per un atto d’ufficio; la scomposizione della vecchia fattispecie di concussione in due distinte incriminazioni, l’una (che conserva la denominazione di concussione) riferita alle ipotesi di autentica “costrizione” del privato alla dazione o promessa di denaro o altra utilità, l’altra alla sua mera “induzione” mediante abuso dei poteri o della funzione da parte del pubblico funzionario; l’introduzione di una nuova figura delittuosa di traffico di influenze illecite, affiancata alla vecchia fattispecie sul millantato credito; la riformulazione del reato societario di infedeltà a seguito di dazione o promessa di altra utilità, oggi rubricato più semplicemente “corruzione tra privati”.

Obiettivo fondamentale della riforma era quello di assicurare una maggiore efficacia alla repressione penale dei fenomeni corruttivi, oltre che alla loro prevenzione attraverso strumenti amministrativi, nella consapevolezza che tali fenomeni rappresentano un costo netto per il nostro paese, stimato da fonti ufficiali in una percentuale pari almeno all’1% del PIL nazionale.

Parallelamente, si trattava di adeguare il diritto penale italiano agli ormai numerosi obblighi internazionali in materia di corruzione, rispetto ai quali la legislazione sinora vigente presentava notevoli lacune e insufficienze.

 

Fonti sovranazionali

Ci si riferisce agli obblighi discendenti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 2003 (cd. Convenzione di Mérida, ratificata dall’Italia in forza della l. 3.8.2009, n. 116), nonché dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa, recentemente ratificata in forza della l. 28.6.2012, n. 110.

Entrambe le convenzioni, per cominciare, impongono espressamente l’incriminazione del traffico di influenze, definito dall’art. 18 a) della Convenzione di Mérida – dal lato attivo – come «il fatto di promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona», e – dal lato passivo – come il fatto di chi corrispondentemente sollecita o accetta, direttamente o indirettamente, l’indebito vantaggio nei termini descritti. Dal canto suo, l’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa obbliga gli Stati parte ad incriminare «il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di rimunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui articoli 2, 4-6 e 9-11 [ossia dei titolari di pubbliche funzioni menzionati nelle norme precedenti], così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di rimunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’esito ricercato».

 

I singoli reati

Alla corruzione il nostro codice penale dedica ben 7 articoli, dal 318 al 322.

Il codice del 1930 distingueva, come è noto, tra due figure fondamentali di corruzione:

a) la corruzione per un atto d’ufficio (cd. impropria), disciplinata dall’art. 318 c.p. e caratterizzata dalla ricezione, da parte del pubblico ufficiale, della promessa o dalla dazione di denaro o altra utilità quale indebita retribuzione per compiere (cd. corruzione impropria antecedente passiva), o per aver compiuto (cd. corruzione impropria susseguente passiva), un atto del proprio ufficio; e

b) la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (cd. propria), disciplinata dall’art. 319 c.p. e caratterizzata parimenti dalla ricezione da parte del pubblico ufficiale della promessa o della dazione di denaro o altra utilità «per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio [cd. corruzione propria passiva, antecedente e susseguente]».

Nella seconda e più grave ipotesi l’ordinamento reagiva, dunque, non solo al mercimonio della pubblica funzione e all’indebito arricchimento del pubblico ufficiale (con correlativo pregiudizio al prestigio della pubblica amministrazione), impliciti in qualunque ipotesi corruttiva; ma anche all’effettiva distorsione delle funzioni pubbliche, concretizzata dal mancato compimento (o dal ritardo nel compimento) di uno specifico atto dell’ufficio, ovvero dal compimento – addirittura – di un atto in contrasto con i doveri d’ufficio da parte del pubblico ufficiale.

Il quadro delle incriminazioni fondamentali era poi completato, in particolare: dall’art. 320 c.p., che estendeva (e tuttora estende dopo la riforma) le disposizioni citate ai fatti corrispondenti commessi da un incaricato di pubblico servizio, prevedendo però una riduzione di pena non superiore a un terzo; e dall’art. 321 c.p., che stabiliva che le pene previste dagli articoli precedenti si applicassero anche al privato che dà o promette denaro o altra utilità al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio (cd. corruzione attiva), salvo che nell’ipotesi di corruzione impropria susseguente (promessa o dazione di denaro o altra utilità al pubblico ufficiale per aver compiuto un atto del proprio ufficio), in cui il privato non era punibile.

La riforma del 2012 apporta, in questo quadro, una radicale innovazione, rappresentata dalla scomparsa dei delitti di corruzione impropria (nelle forme antecedente e susseguente, attiva e passiva) in favore di un inedito delitto di «corruzione per l’esercizio delle funzioni», disciplinato nella forma passiva dal nuovo art. 318 c.p., che si affianca al vecchio delitto di corruzione propria passiva (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio) di cui all’art. 319 c.p., i cui requisiti costitutivi restano inalterati. Le due incriminazioni vengono anche dopo la riforma estese – tenendo ferma la riduzione di pena sino ad un terzo – all’incaricato di pubblico servizio giusta il disposto dell’art. 320 c.p.; nonché a tutte le corrispondenti ipotesi di corruzione attiva in forza del novellato art. 321 c.p. Restano invece sostanzialmente invariate le norme di cui agli artt. 319 ter (corruzione in atti giudiziari), 322 (istigazione alla corruzione) e 322 bis c.p. (corruzione internazionale), salve talune interpolazioni necessarie ad assicurarne il coordinamento con le modifiche agli articoli precedenti.

In base all’articolo 318 codice penale il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

Rispetto al passato, la nuova norma sulla corruzione per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 318 c.p. svincola la punibilità del pubblico ufficiale (nonché dell’incaricato di pubblico servizio e dello stesso privato, in forza rispettivamente degli artt. 320 e 321 c.p.) dalla puntuale individuazione di uno specifico atto o comunque di una specifica condotta oggetto dell’illecito mercimonio, consentendo la punizione di entrambe le parti del pactum in ragione della mera promessa o dazione indebite di denaro o altra utilità al pubblico funzionario. Laddove, invece, la pubblica accusa riesca a dimostrare che la pattuizione aveva ad oggetto il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, ovvero l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, il fatto risulterà inquadrabile ai sensi della più grave fattispecie di «corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio» di cui all’art. 319 c.p., che continuerà ad applicarsi tanto alla corruzione antecedente come a quella susseguente.

La materia, invero, era già stata modificata nel 1990 con la legge 86. Tuttavia il reato di cui all’art. 318 era rimasto formalmente invariato, sia per quanto concerne la struttura della condotta sia con riferimento ai soggetti attivi. La modifica più rilevante aveva riguardato il trattamento sanzionatorio in quanto il minimo di pena era stato innalzato a sei mesi.

La legge Severino ha opportunamente cambiato la rubrica della norma: ora non è più denominato “corruzione impropria”, ma “corruzione per l’esercizio della funzione”. Ciò sta a significare che il disvalore del comportamento è incentrato sul conseguimento del denaro o di altra utilità quale corrispettivo riferito genericamente all’esercizio dei poteri di cui è investito il funzionario.

È stato in questo modo eliminato il collegamento tra utilità, ricevuta o promessa, con un atto da adottare o adottato.

Anche il quadro sanzionatorio è notevolmente inasprito rispetto al passato. Il nuovo art. 318 c.p. prevede la reclusione da uno a cinque anni (contro la reclusione da sei mesi a tre anni stabilita dalla vecchia norma in tema di corruzione impropria), mentre le pene previste dall’art. 319 c.p. (rimasto invariato nella sua parte precettiva) si elevano alla reclusione da quattro a otto anni (rispetto al quadro precedente che prevedeva la reclusione da due a cinque anni). Analoghi irrigidimenti sanzionatori concernono il delitto di corruzione in atti giudiziari, dove in particolare la pena prevista per l’ipotesi base sale da tre a quattro anni nel minimo, e da otto a dieci anni nel massimo.

La conseguenza pratica più rilevante di tali inasprimenti si apprezza, naturalmente, sul terreno delle ricadute processuali, dal momento che in relazione a tutti questi delitti sarà ora possibile adottare misure cautelari (anche di natura custodiale, in presenza di massimi edittali sempre superiori ai quattro anni di reclusione), e sarà possibile altresì procedere a intercettazione delle conversazioni o comunicazioni giusta il generale disposto dell’art. 266, co. 1, lett. b, c.p.p.

La condotta del pubblico funzionario deve consistere nel ricevere un compenso non dovuto o nell’accettarne la promessa. Nella corruzione impropria susseguente era esclusa la promessa.
Inoltre, oggi è assoggettato a sanzione penale anche il privato che dà o promette il compenso.

Il patto corruttivo può realizzarsi anche tramite terzi intermediari, purchè sia dimostrato il consenso della parte pubblica.

Il compenso può essere ricevuto dal soggetto qualificato per sé o per un terzo, che ovviamente non è né lo Stato né l’ente pubblico cui appartiene il funzionario.

La nozione di altra utilità va intesa in senso ampio, comprensiva di qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale e non.

Il corruttore può versare delle somme di denaro, come prezzo del reato, anche a terzi qualora ciò sia convenuto nell’interesse del funzionario.

Il reato si perfeziona, alternativamente, con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione del denaro o di altra utilità.

La seconda rilevante novità concerne lo sdoppiamento del delitto di concussione, in precedenza disciplinato unitariamente dall’art. 317 c.p., che prevedeva il fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio il quale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringesse o inducesse taluno a una indebita dazione o promessa di denaro o altra utilità.

Il nuovo art. 317 c.p. limita invece il proprio ambito di applicazione a) al solo fatto del pubblico ufficiale (e non più, dunque, dell’incaricato di pubblico servizio) il quale b) costringa il privato alla illecita dazione o promessa: con esclusione delle ipotesi di mera induzione. Queste ultime costituiscono invece l’oggetto della nuova (e meno grave) figura criminosa di cui all’art. 319 quater c.p., inserita in chiusura delle incriminazioni delle ipotesi di corruzione passiva e rubricata Induzione indebita a dare o promettere utilità, che prevede il fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.

Il privato che effettua la dazione o la promessa non è punibile nell’ipotesi di concussione di cui all’art. 317 c.p., trattandosi all’evidenza di una vittima dell’abuso del pubblico ufficiale; mentre è per la prima volta considerato punibile dal secondo comma dell’art. 319 quater c.p., seppure con una pena sensibilmente inferiore rispetto a quella prevista per il pubblico funzionario che riceve l’indebita dazione o promessa, laddove per l’appunto sia destinatario di una mera induzione da parte di quest’ultimo.

Le sanzioni sono ulteriormente inasprite nel caso di concussione (per costrizione, oggi concussione tout court), delitto per il quale è oggi prevista la pena minima di sei anni di reclusione (contro i quattro precedenti), fermo restando il massimo già in vigore di dodici anni; mentre nel caso di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319 quater c.p. la pena va da tre a otto anni di reclusione per il pubblico funzionario (con disciplina dunque più favorevole rispetto a quella prevista dal vecchio art. 317 c.p.) e fino a tre anni (senza previsione di minimi edittali) per il privato. Rispetto a entrambe le fattispecie, sarà dunque possibile attivare intercettazioni e sarà possibile altresì emettere misure cautelari anche custodiali, eccezion fatta che per il privato vittima di indebita induzione.

In base all’articolo 319 del codice penale il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per avere omesso o ritardato un atto del suo ufficio, oppure per compiere o per avere compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.

L’articolo configura l’ipotesi di corruzione propria, anch’essa antecedente o susseguente, che si ha quando il mercimonio dell’ufficio concerne un atto contrario ai doveri d’ufficio.

La legge 86 del ’90 ha provveduto a unificare le due ipotesi della corruzione antecedente e susseguente.

Il bene giuridico tutelato dalla norma è anche qui il prestigio della p.a., insieme ai principi di buon andamento e imparzialità desumibili dall’art. 97 Cost.

La legge anticorruzione del 2012 ha inciso sui limiti di pena, influendo opportunamente sui termini minimi di prescrizione (incrementati), oltre che sulla configurabilità del fermo.

La legge 69 del 2015 ha ulteriormente aggravato il trattamento sanzionatorio.

Di questo reato può essere ritenuto responsabile anche un Consigliere Regionale per comportamenti tenuti nella sua attività legislativa.

È priva di fondamento la tesi secondo la quale nell’esercizio di un’attività amministrativa discrezionale, e in particolare della pubblica funzione legislativa, non si può ipotizzare il mercanteggiamento della funzione, nemmeno se venga concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta valutazione degli interessi della collettività, ma da quello prevalente di un privato corruttore.

Non è applicabile la speciale guarentigia sanzionata dal comma 4 dell’articolo 122 della Costituzione secondo il quale i Consiglieri Regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

Questa speciale immunità non trova applicazione qualora il Consigliere Regionale non sia perseguito dal giudice penale per avere concorso alla formazione ed alla approvazione di una legge regionale, ma per comportamenti che siano stati realizzati con soggetti non partecipi di tale procedimento al fine di predisporre le condizioni per il conseguimento di un vantaggio illecito.

Una terza rilevante novità della riforma è rappresentata dall’introduzione di un nuovo delitto di traffico di influenze illecite, disciplinato dal nuovo art. 346 bis c.p. La norma prevede il fatto di chi, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) e di corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio».

Scopo dell’incriminazione è, all’evidenza, quello di colpire i fenomeni di intermediazione illecita tra il privato e il pubblico funzionario, finalizzato alla corruzione di quest’ultimo. La norma mira dunque a colpire condotte prodromiche rispetto a (successivi) accordi corruttivi che coinvolgeranno il titolare di pubbliche funzioni, sulle cui determinazioni si vorrebbe illecitamente influire; condotte che l’esperienza insegna essere anch’esse spiccatamente pericolose per i beni giuridici finali offesi dalla conclusione ed esecuzione di accordi corruttivi. Del tutto conseguentemente, la norma non si applica nel caso in cui il pubblico ufficiale accetti la promessa o la dazione del denaro da parte dell’intermediario, profilandosi in tal caso un concorso del privato, dell’intermediario e del pubblico ufficiale in un delitto consumato di corruzione.

La pubblica accusa dovrà, pertanto, dimostrare a) che l’intermediario si sia fatto dare o promettere o promettere denaro o altro vantaggio patrimoniale, quale prezzo per la propria mediazione ovvero per remunerare il funzionario pubblico – e dunque, in quest’ultima ipotesi, con l’obiettivo di trattenere egli stesso il denaro o il vantaggio, ovvero di versarlo successivamente al funzionario da corrompere –; e dovrà inoltre b) dimostrare che la promessa o dazione siano state effettuate «in relazione» al compimento, da parte del funzionario, di una condotta contraria ai suoi doveri d’ufficio, laddove l’espressione «in relazione» sembra alludere tanto alla prospettiva di un futuro compimento di una tale condotta da parte del funzionario, quanto ad un compenso del funzionario medesimo per una condotta antidoverosa già compiuta.

Quarto e ultimo aspetto di rilievo della riforma concerne il delitto di cui all’art. 2635 c.c., di cui muta anzitutto la rubrica: da Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità a quella, assai più espressiva e sintetica, di Corruzione tra privati.

L’ipotesi base di cui al primo comma – che incrimina, oggi come ieri, il fatto di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società – resta sostanzialmente inalterata, a parte qualche precisazione di scarso impatto pratico: la dazione o la promessa di utilità possono essere accettate «per sé o per altri» dai soggetti attivi, e il compimento od omissione dell’atto può avvenire, oltre che in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, anche dei loro «obblighi di fedeltà».

Una novità concerne invece i soggetti attivi, il nuovo secondo comma prevedendo un diverso e più mite quadro edittale allorché il fatto sia commesso «da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma».

Resta confermata, rispetto al testo previgente, l’estensione della punibilità anche a chi dà o promette l’utilità.

E resta infine confermata la regola, contenuta al quinto e ultimo comma, della perseguibilità a querela della persona offesa; regola alla quale si deroga, in favore della procedibilità d’ufficio, nella sola ipotesi in cui «dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi».