La corruzione ai tempi dei greci e dei romani

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La corruzione è un male vecchio quanto l’uomo. Anche nel più bello dei paradisi terrestri c’è sempre un serpente pronto a corrompere e qualcuno disponibile a farsi corrompere.

Relazione S.A.e T.



La corruzione è un fenomeno molto antico, presente sin dai tempi degli antichi greci e romani. Uno sguardo a quello che accadeva in quel mondo lontano ci consentirà di comprendere meglio come si è sviluppato nel corso del tempo e quali forme ha assunto questa terribile piaga che spesso va ad intaccare il sistema democratico.

Nel mondo antico la corruzione assume la connotazione di malgoverno, volto a far prevalere l’interesse particolare su quello generale e al non rispetto delle leggi.



La Grecia

All’apparenza sembrerebbe che una delle ragioni della corruzione nel mondo greco fosse dettata dal voler concentrare il potere nelle mani del singolo o di pochi. Ma un’osservazione più attenta smenti-sce questa visione. Nel VI secolo a.C., Atene venne suddivisa da Clìstene, uno dei padri della democrazia, in dieci “tribù” allo scopo di ridurre la forza di alcuni antichi gruppi di potere.

Egli cercò così di inserire la popolazione nel processo decisionale della vita politica, ma le clientele precedenti non vennero me-no. Si svilupparono però nuove forme di rappresentanza e cooperazione ed i poveri, pur essendo al servizio dei nobili, ebbero modo di ribellarsi tramite l’espressione di parola nell’assemblea popola-re. Solo quando il potere dei nobili non venne più tollerato, vi fu la caduta delle oligarchie.

Nonostante l’avvio di un processo di democratizzazione, l’ombra di una corruzione generalizzata fu presente, secondo Plutarco e Aristofane, anche sotto l’attività di Pericle che cercava di guadagnarsi il consenso del popolo organizzando banchetti e feste e impiegando il denaro dello Stato per creare monumenti ornamentali. I soldi e il potere sembrano essere gli elementi ricorrenti in questo scenario e la politica uno dei terreni più fertili per il fenomeno della corruzione. La mistoforia, introdotta nel V secolo a.C. da Pericle, attribuì un’indennità giornaliera a quanti ri-coprivano le cariche pubbliche e pertanto la visione dello spendersi gratuitamente a favore dell’interesse pubblico venne meno. Aristotele riteneva ciò positivo, in quanto il pagamento di una retribuzione avrebbe consentito anche ai poveri di occuparsi della vita politica e così fu. Ma il privilegio concesso venne mal gestito dai singoli, che iniziarono a vendere il loro voto per denaro: come membri dell’Ecclesia o come magistrati a seconda delle funzioni che esercitavano.



Così, non solo la politica divenne teatro di corruzione, ma anche il tribunale, in cui i magistrati in cambio di denaro decidevano a chi assegnare la vittoria della causa, non curanti dell’innocenza o della colpevolezza dell’imputato. Accanto ai giudici, estratti a sorte tra i cittadini, anche i funzionari pubblici e amministrativi si lasciavano corrompere per accelerare la vita pubblica.


Nonostante siano passati tanti anni dal mondo greco, non riscontrate anche voi delle analogie con il presente?



Roma

Lo scenario cambia dal punto di vista territoriale, ma le dinamiche sono le stesse anche ai tempi degli antichi romani. La corruzione continua a dilagare nella politica, nelle aule di giustizia e nell’amministrazione della cosa pubblica. La storia sembra pertanto destinata a ripetersi: gruppi di potenti in contrasto tra loro per garantirsi la supremazia, ma legati dall’interesse comune del mantenimento del potere; clientele tramite le quali si “aggiustano” i processi (oggi probabilmente utilizzeremmo questa espressione) e si truccano le elezioni. Allora come oggi, anche il mondo de-gli appalti faceva gola ai corruttori. Eppure c’era chi, come Cicerone, elogiava i brogli elettorali di cui era accusato Catone, sostenendo che: “La piccola gente ha un solo mezzo, nei riguardi del nostro ordine senatorio, per guadagnarsi o ricambiare un beneficio: ed è codesto darsi attorno e starci attorno alle nostre campagne elettorali. […] Non voler dunque, o Catone, strappare a questa più umile gente questo frutto delle sue premu-re, e consenti ad essi, che tutto attendono da noi di aver qualcosa da offrici a loro volta. Se questo qualcosa sarà null’altro che il loro voto, è ben poca cosa, poiché votandosi per gruppi, non nasce da esso un titolo individuale di benemerenza […]” .

Altro autore favorevole alla corruzione era Tacito, ma a lui si contrapponevano Plauto e Sallustio che affermavano che i poveri si erano messi “a vendere la propria libertà insieme con lo stato. Così a poco a poco il popolo, che era padrone e comandava a tutte le genti, si disperse e in luogo del dominio comune ciascuno procurò a se stesso una servitù personale” . Anche nell’età repubblicana il fenomeno corruttivo aveva vita facile nell’ambito elettorale, dove si svolgeva una vera e propria compravendita del voto. Neppure il passaggio da un voto palese, nel quali gli aristocratici votavano per primi ed influenzavano di conseguenza i votanti successivi, ad uno segreto arrestò la corruzione. Dal punto di vista legislativo, si cercò di arginare il fenomeno inizialmente con la Lex Calpurnia, approvata da Lucio Calpurnio Pisone nel 149 a.C., che sanzionava i crimen repetundàrum, cioè e-storsione, corruzione e captazione dei doni da parte di magistrati che li sottraevano alla comunità. Successivamente fu la volta della Iulia repetundarum, che si prefiggeva di punire il soggetto che chiedeva denaro in cambio di provvedimenti giudiziari o amministrativi. I tentativi restarono vani. La differenza che si può rimarcare tra Repubblica ed Impero è che nella prima si acquistavano il voto, le cariche pubbliche inferiori, i posti nell’amministrazione e nell’esercito; nel secondo la via impiegata era quella delle tangenti per raggiungere le cariche più alte. E fu proprio questa vena cor-ruttiva a decretare la fine dell’Impero. Allontanandoci per un attimo dai tempi romani possiamo riscontrare che oggi l’art. 416 ter del codice penale disciplina lo scambio elettorale politico-mafioso secondo il quale: “La pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis (associazione di tipo mafioso) si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della eroga-zione di denaro”. Probabilmente ciò che oggi il nostro codice penale sanziona è quanto accadeva anche in età antica.

Vi lasciamo con una curiosità: il termine candidato deriva dalle vesti molto bianche indossate dai candidati, che tramite l’ambitus cercavano di impressionare gli elettori ostentando le loro ricchezze.





Fonti: Tesi di laurea di Elisa Martino, “Democrazia e corruzione”.

Rubrica a cura del Presidio Cassarà, nell’ambito dell’attività dell’Osservatorio regionale di Libera Piemonte



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