Negli ultimi anni il fenomeno del caporalato nelle campagne italiane è balzato agli onori delle cronache con una certa frequenza: a Rosarno il 26 aprile 2010 vennero arrestati trenta caporali, ma anche Nardò, Saluzzo e le campagne piemontesi denunciano il medesimo fenomeno. Ogni volta, giovani migranti decidono di dire no ad un fenomeno lavorativo molto vicino alla schiavitù, di alzare la testa e coalizzarsi, e l’Italia si accorge di loro solo allora.
Ma non è iniziato tutto ai giorni nostri: nel 1980 si ricordano diversi fatti di cronaca legati a tale fenomeno; alcune ragazze morirono in un autobus di caporali, ed altri caporali spararono contro una folla di sindacalisti in protesta.
Ma è sempre possibile parlare di caporalato? È un reato punito in materia lavoristica dalla giurisprudenza? Proviamo a capire qualcosa in più.
Normalmente quando parliamo genericamente di caporalato ci riferiamo spesso a forme di sfruttamento punite nella legislazione del lavoro come sfruttamento illecito o schiavitù. È soltanto il 13 agosto 2011, che l’art. 12 del Decreto Legge n.138, convertito in legge n.148 del 14 settembre 2011, introduce l’art. 603-bis al Codice Penale, che stabilisce il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Quali sono gli elementi che caratterizzano il fenomeno secondo la nuova legislazione? Innanzitutto “la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali”; poi, “la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie”; la sussistenza di violazioni in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro ed infine la sottoposizione del lavoratore a “condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti”. Esistono anche aggravanti specifiche del reato, che conducono ad una pena fino a dodici anni di reclusione, e sono il numero di lavoratori reclutati (se superiore a tre è un’aggravante), l’età di questi (se minori, è un’aggravante anche questo) e la messa in pericolo grave dei suddetti. Fino al 2011 il rischio per il caporale era al massimo di cinquanta euro a persona al giorno, nulla in confronto al guadagno.
Alessio Scarcella, magistrato ordinario, fu tra i primi a commentare l’inserimento della norma sul caporalato. A suo parere “la nuova fattispecie, seppur con qualche ombra, garantisce un più efficace contrasto contro i fenomeni di sfruttamento del lavoro”. In particolare, la fattispecie di reato si riferisce all’art. 603-bis del Codice Penale e riguarda l’intermediazione illecita. Tale norma risultava, e risulta ancora oggi, totalmente nuova nel panorama legislativo italiano, e nasce dall’osservazione della presenza di un massiccio lavoro nero nel nostro Paese, che finalmente il legislatore si accorge di dover tener presente.
Nel 2009 l’ex ministro Sacconi rilevò alcuni dati allarmanti sul lavoro nero nel nostro Paese: il suo aumento superava il 60%, e quello delle violazioni in materia di appalti il 273%. Si impennarono anche le ipotesi di reato in materia di orario di lavoro (+154%) ed in merito allo Statuto dei Lavoratori (+262%). Sembra inoltre, dai dati di quell’anno, che le cifre più alte di lavoro sommerso si contassero nel nord Italia, con quasi il 65% a fronte del 31% del sud.
Riassumono così alcuni giuristi: “nel caporalato, ovverossia nel reclutamento abusivo di mano d’opera agricola, l’accordo tra il caporale e l’agrario si concretizza in una attività materiale diretta ad agevolare l’instaurazione del rapporto di lavoro tra il proprietario del fondo e prestatori, in deroga alla disciplina del collocamento; il caporale non si preoccupa solo di segnalare i nominativi dei braccianti, ma gestisce in proprio il trasporto degli stessi sul luogo di lavoro con furgoni, pulmini ecc., sicché l’agrario fruisce direttamente presso l’azienda delle prestazioni lavorative, in violazione delle norme sul collocamento” [fonti Riv. Pen., 1989, 394 e Arch. Giur. Circolaz., 1989, 414].
Vi è quindi una debole differenza tra il caporalato mediato realmente dal caporale e l’intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro intesa come nelle caratteristiche sopra elencate. Ecco perché molte volte sembra difficile definire il fenomeno: a Castelnuovo Scrivia, ad esempio, dove i braccianti denunciano negli ultimi anni diversi soprusi, sembrano non essere presenti caporali intermediari, ma pare che il padrone dell’azienda fosse il controllore del lavoro nero dei braccianti. Questo però non cambia le loro condizioni: la mancanza di acqua, la retribuzione ridicola, gli orari di lavoro estremi, la mancanza di sistemazione abitativa rendono la loro situazione assimilabile a quella di cui stiamo trattando.
Pochi giorni dopo l’approvazione del DL in materia, iniziarono però ad agitarsi gli animi: è vero che la nuova legislazione sembrava apparire come un deterrente notevole, ma sicuramente non era e non è sufficiente né adeguato alla situazione di allarme che vive l’Italia al riguardo. In un articolo del 26 settembre 2011, David Mancini sottolineava ad esempio il collegamento tra questo reato e quello della tratta degli esseri umani. Agostino del Balzo, coordinatore degli ispettori addetti al controllo sulle questioni di caporalato a Torino, si diceva contento solo in parte in un’intervista rilasciata a Linkiesta nel settembre 2011: non modificando il numero di coloro che si dovrebbero occupare di trovare i colpevoli, il lavoro resta molto complesso. Sono ispettori ministeriali che viaggiano come civili sulle loro automobili, e che vengono spesso aggrediti, maltrattati e cacciati. Dopo la Legge Biagi il loro lavoro è certamente aumentato, ma le risorse no.
Certamente qualche passo è stato fatto, ma ancora sembra non esistere realmente un contrasto capillare al fenomeno. Sembra un controsenso, eppure è la storia del nostro Paese, quella storia che ci induce ad accorgerci dei problemi solo nella contingenza dei fatti, e a dimenticarcene presto quando la cronaca si inabissa in altra cronaca, all’apparenza troppo urgente.