Il 10 febbraio del 1986, in questi giorni si è ricordato il trentennale in diversi articoli di giornali e varie commemorazioni, cominciava il cosiddetto Maxiprocesso contro Cosa Nostra. Maxi lo era davvero: 475 imputati, oltre 8mila pagine di ordinanza di custodia cautelare, centinaia tra avvocati difensori e giornalisti, un’aula bunker costruita ad hoc a fianco al carcere dell’Ucciardone. Era l’inizio di uno spartiacque, anche se non tutti forse lo capirono subito. Per arrivarci era stato necessario il lavoro straordinario del pool di Palermo, voluto da Antonino Caponetto, composto da Leonardo Guarnotta, Giuseppe di Lello, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questi ultimi due, in particolare, per concludere l’ordinanza, avevano passato l’estate del 1985, con le loro famiglie, “reclusi” sull’isola dell’Asinara, per lavorare in sicurezza e isolamento. Per giungere in aula, si era dovuto reggere il peso dell’offensiva di Cosa Nostra, che da almeno 6 anni aveva aperto uno scontro senza precedenti contro lo Stato, iniziato con il nuovo decennio e la lista di delitti eccellenti spaventosa: il presidente della regione Sicilia Pier Santi Mattarella (1980), il segretario del PCI siciliano e deputato Pio La Torre (1982), il generale e prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa (1982), il consigliere istruttore Rocco Chinnici (1983), molti uomini delle forze dell’ordine come Ninni Cassarà e Beppe Montana (1985) e molti altri uomini delle istituzioni; in molti di queste stragi morirono agenti di scorta, famigliari stretti, a volte passanti o innocenti che nulla avevano a che fare con l’obiettivo dei killer.
Per la prima volta, anche grazie all’introduzione del 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) nel codice penale, grazie alla legge Rognoni-La Torre, lo Stato si trovava ad avere in mano un’arma legale forte, contro le mafie. Per la prima volta, sedettero in aula decine e decine di famigliari delle vittime, ad ascoltare e cercare di avere risposte e giustizia: per loro Camilla Cederna lanciò una sottoscrizione da Milano per raccogliere fondi, per pagare le spese di difesa, dei famigliari. Il processo durò quasi due anni, ricco di colpi di scena, dentro e fuori l’aula: la deposizione in aula di Tommaso Buscetta (l’uomo che aveva svelato a Falcone l’architettura di Cosa Nostra) e altri collaboratori, l’articolo sul Corriere della Sera, a firma di Leonardo Sciascia, intitolato (ma non per volontà del celebre scrittore) “I professionisti dell’antimafia”, che ebbe l’effetto della benzina sul fuoco. E mentre un pezzo del nostro Paese faceva il tifo per i magistrati del Pool, un’altra, più sotterranea, anche nelle articolazioni apparentemente più elementari e innocue della società, insinuava i sospetti e le polemiche, lanciava accuse e seminava veleno, alludeva a presunte collusioni e contiguità (la vicenda delle lettere del “Corvo”: missive anonime, che si pensò scritte da un magistrato di Palermo, nelle quali si alludeva a una gestione troppo disinvolta dei collaboratori di giustizia, Totuccio Contorno in primis, da parte di Falcone).
Le amarezze si sommarono: Falcone vide la sua candidatura, per la successione di Antonino Caponetto alla guida della procura di Palermo, bocciata dal Csm, usando il criterio di anzianità, preferendogli un incompetente in processi di mafia, come Antonino Meli, che aveva il solo merito di avere più anni di servizio.
L’11 novembre 1987 arriverà la sentenza di primo grado: condanne per oltre 2600 anni di reclusione, un colpo senza precedenti a Cosa Nostra, che tuttavia contava di risolvere il problema con i gradi successivi del giudizio. Già in corte d’Appello la sentenza venne pesantemente alleggerita, ma lo scontro finale era atteso in Cassazione. Nel frattempo, Cosa Nostra proverà senza successo ad eliminare il suo nemico numero uno: il fallito attentanto dell’Addaura, del 20 giugno 1989, che ancora oggi nasconde segreti nella sua dinamica, fu liquidato da alcuni giornali come una messa in scena, per farsi pubblicità, dello stesso Falcone, che invece parlò di “menti raffinatissime”.
Nel 1991, Falcone andò alla direzione degli Affari Penali, su proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli, dopo mesi di contrasti nella procura di Palermo: il nuovo capo, Pietro Giammanco di certo non gli aveva facilitato la vita professionale. A Roma Falcone, pur tra mille polemiche strumentali, immaginò una nuova architettura di contrasto alla mafia: la Direzione Nazionale Antimafia, con le relative procure distrettuali, fu una sua intuizione.
La tanto attesa sentenza di Cassazione, arrivo nel primo mese del fatidico 1992: grazie alla rotazione del collegio giudicante, impedendo nei fatti a Corrado Carnevale di presiedere la sezione della suprema corte, si confermerà l’impianto accusatorio del pool di Palermo: è il 30 gennaio 1992. Cosa Nostra, lasciata in ginocchio forse per la prima volta, avrebbe presto mostrato tutti i suoi muscoli, eliminando ex alleati traditori (Salvo Lima, il 12 marzo, Ignazio Salvo, il 17 settembre), ma soprattutto colpendo i responsabili principali di quella sentenza, anche sotto il profilo mediatico-simbolico: Giovanni Falcone, il 23 maggio con il tritolo di Capaci (dove morirono anche la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro) e Paolo Borsellino, il 19 luglio, con la bomba di via d’Amelio (dove morirono Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina e Walter Eddie Cosina). Le immagini delle stragi, degne dei più cruenti teatri di guerra, furono lo choc del 1992, che unito al ciclone giudiziario dell’inchiesta Mani Pulite a Milano, avrebbe incrinato e fatto crollare la Prima Repubblica. Era l’inizio, o poteva sembrarlo, del baratro e di una guerra, nello scoramento, lo stupore e la rabbia collettive. La reazione, civile e civica, legale e ferma, di tutte le parti migliori delle istituzioni, non sarebbe tardata a mostrarsi; ma intanto, questo Paese era arrivato al culmine del prezzo di sangue versato, dopo tanti anni, nella lotta alle mafie. Nulla, nel bene e nel male, sarebbe stato più come prima.
La nostra Repubblica, ormai 70enne, è nata almeno due volte: la seconda, con i suoi misteri e le sue zone d’ombra ancora oggi oscure, è venuta alla luce dopo quei 57 giorni che separano Capaci da Via d’Amelio.