Estorsione: analisi giuridica del reato

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Il reato di estorsione è disciplinato dall’art. 629 c.p., che, all’interno del Titolo dedicato ai reati contro il patrimonio, tipizza una delle fattispecie più gravi appartenenti a tale categoria, in quanto per la sua commissione è necessario che si agisca mediante minaccia o violenza. Infatti, Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.

L’ipotesi-base di estorsione appena delineata è poi corredata da un secondo comma, il quale prevede una fattispecie aggravata di estorsione qualora ricorra almeno una delle ipotesi di cui all’art. 628, comma 3, c.p.[1]

Nell’affrontare la tematica dell’estorsione, ci pare importante concentrare l’attenzione anzitutto sulla fattispecie principale tipizzata dal legislatore, rispetto alla quale si può dire che suoi elementi costitutivi siano, in primo luogo, la violenza o la minaccia, le quali devono caratterizzare la condotta del soggetto attivo, che è una condotta di tipo costrittivo rivolta ad un soggetto passivo affinché costui si privi indebitamente di una somma di denaro o di altro bene. È, infatti, in virtù della costrizione operata per tramite della minaccia o della violenza che il soggetto attivo (l’estorsore) riesce a procurare, non necessariamente a sé, ma anche ad altri, un ingiusto profitto, contestualmente cagionando ad altri (quindi non soltanto alla vittima dell’estorsione, ma anche a soggetti diversi) un danno.

Soffermiamoci ora, più in dettaglio, sui singoli elementi costitutivi della fattispecie.

Il reato di estorsione è un reato comune, in quanto può essere commesso da chiunque.

La condotta tenuta dall’agente, per poter essere qualificata come estorsiva, deve necessariamente concretizzarsi in una costrizione, che, a sua volta, deve essere perpetrata mediante violenza, o anche solo minaccia (tanto che è possibile affermare che tra la costrizione e la violenza – o la minaccia – debba sussistere un rapporto strumentale ed eziologico, posto che le prime devono rappresentare lo strumento per la realizzazione della seconda, e, al contempo, la costrizione deve costituire l’effetto della violenza o della minaccia). Al contrario, una condotta che, pur intendendo piegare la volontà della vittima, fosse sprovvista dei connotati violenti o minacciosi, non potrebbe essere ritenuta costrittiva in senso proprio, quanto piuttosto meramente induttiva, e come tale non perseguibile e sanzionabile ai sensi dell’art. 629 c.p., che invece ritiene passibile di sanzione soltanto quella condotta che sia qualcosa di più di una semplice induzione. Quanto alla minaccia e alla violenza, vale quanto segue.

Per minaccia va intesa la prospettazione di un male ingiusto e notevole, proveniente dal soggetto minacciante, che può essere attuata sia esplicitamente, sia implicitamente, purché essa sia in concreto idonea a ledere la libertà di autodeterminazione della vittima. Non è, al contrario, necessario che si verifichi l’effettiva intimidazione del soggetto passivo.

La violenza deve invece essere tale da non coartare completamente la volontà della vittima; il soggetto passivo, dunque, deve avere un margine di autodeterminazione, nel senso di poter scegliere se cedere all’estorsione o subire il male minacciato. L’intensità della violenza è parametro che serve a differenziare il reato di estorsione da quello di rapina: infatti, in quest’ultima fattispecie, disciplinata dall’art. 628 c.p., la violenza deve essere commessa con una ferocia tale da coartare completamente la volontà del soggetto passivo, la cui libertà di scelta (circa la consegna o meno del bene all’aggressore) viene di fatto del tutto annullata.[2]

L’elemento dell’ingiusto profitto si individua in “qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intende conseguire, e che non si collega a un diritto o è perseguito con uno strumento antigiuridico, o ancora con uno strumento legale ma avente uno scopo diverso” (cfr. Cass. Pen., sentenza n. 11979/2017, che a sua volta fa richiamo di precedenti sentenze, per cui si può dire che, sul punto, l’orientamento della giurisprudenza sia costante ed oramai consolidato). Maggiormente restrittiva è, invece, l’impostazione che emerge da analoghe pronunce a proposito dell’ulteriore elemento costitutivo rappresentato dal danno, rispetto al quale vale l’ancoraggio alla patrimonialità. Tale danno deve essere insito nell’atto di disposizione che sia derivato dalla costrizione posta in essere dall’agente e non può, peraltro, essere ritenuto sussistente in re ipsa. Benché sia piuttosto datato, può essere utile citare, per meglio comprendere la relazione che intercorre tra gli elementi dell’ingiusto profitto e del danno (nonché le loro caratteristiche), un passaggio contenuto in Cassazione Penale, sentenza n. 1683/1993: “Se la coartazione da parte dell’agente è diretta a procurarsi un ingiusto profitto, che può anche essere non patrimoniale, con altrui danno, che non può non rivestire la connotazione di natura patrimoniale, dovendo consistere in un’effettiva deminutio patrimonii, ricorre il delitto di estorsione”.

Occorre a questo punto dar conto, per avere a disposizione un quadro sul delitto di estorsione che sia il più completo e chiaro possibile, dei rapporti che intercorrono tra tale fattispecie ed altri reati che, pur essendo ad essa astrattamente assimilabili, devono essere concettualmente tenuti distinti, onde evitare di considerare estorsione ciò che in realtà estorsione non è. In particolare, è importante differenziare l’estorsione dall’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e, poi, ancora, dall’usura. Al fine di demarcare i rispettivi confini tra fattispecie, può esser d’aiuto citare alcune pronunce giurisprudenziali che hanno affrontato il tema.

A proposito dei rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni, precisato che si tratta di fattispecie tra loro alternative, che – come tali – non possono concorrere, è opinione pacifica in giurisprudenza che il delitto di estorsione sia configurabile “quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalisticamente orientata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della sua capacità volitiva; è, invece, configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando un diritto giudizialmente azionabile venga soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano un epilogo costrittivo, ma più blandamente persuasivo”[3]. Inoltre, ulteriore fondamentale differenza è legata la fatto che, mentre nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni il soggetto attivo deliberatamente sceglie di “farsi giustizia da sé”, ricorrendo alla violenza o alla minaccia anziché alla sola azione consentita dall’ordinamento – il ricorso ad un giudice – al fine di recuperare un credito che effettivamente gli è spettante, e sul quale egli può dunque vantare un legittimo diritto, nel reato di estorsione, al contrario, non c’è alcun credito preesistente che debba in qualche modo essere recuperato, ma la condotta costrittiva perpetrata mediante minaccia o violenza è finalizzata a procurare all’autore o ad altri un ingiusto profitto – un vantaggio, cioè, del tutto indebito e non dovuto[4]. Per ulteriori indicazioni sulla questione, cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 29541/2020, in cui vengono compiutamente delineati i rispettivi ambiti di applicazione, nonché gli elementi strutturali divergenti, delle due fattispecie penali.

Ancor più interessante è, per quel che a noi interessa, identificare gli elementi di differenziazione tra le fattispecie di estorsione e di usura, entrambe qualificabili come reati contro il patrimonio (benché, oramai concordemente, si ritenga che entrambe le fattispecie costituiscono ipotesi di reati plurioffensivi, in quanto ad essere leso dalle relative condotte non è soltanto il patrimonio personale della vittima, ma anche la sua libertà di autodeterminazione in sede negoziale – nel caso dell’usura – e la libertà ed integrità personali, intese come diritto a non essere destinatario dell’altrui costrizione mediante minaccia o violenza, entrambe spettanti ad ogni individuo in quanto tale – nel caso dell’estorsione). A differenza di quanto abbiamo visto in tema di rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni, benché le due fattispecie penali siano connotate da elementi strutturalmente diversi, stante la diversità dei beni giuridici da esse tutelati, i due reati possono in concreto concorrere. Sul punto, si veda la sentenza della Cassazione Penale n. 38551/2019, che ha specificamente esaminato gli elementi costitutivi dei delitti di usura e di estorsione, delineandone contestualmente i tratti distintivi. In merito a quest’ultimo aspetto, va evidenziato che “il reato di usura, che rientra tra i delitti contro il patrimonio mediante frode, si distingue dall’estorsione, che rientra tra i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone, perché, ai fini dell’integrazione [della condotta], non occorre che il soggetto attivo ponga in essere, in danno di quello passivo, una violenza o minaccia”. Stante la netta differenziazione circa i rispettivi ambiti applicativi – atteso che ben potrebbe configurarsi un caso in cui il soggetto attivo, dopo aver pattuito con la controparte interessi usurari, pretenda la corresponsione di tali interessi e, nel far ciò, lo costringa alla restituzione mediante violenza o minaccia – afferma la medesima Corte di Cassazione che “i delitti d’usura e di estorsione possono concorrere ove la violenza o la minaccia, assenti al momento della stipula del patto usurario, siano in un momento successivo impiegate per ottenere il pagamento dei pattuiti interessi o degli altri vantaggi usurari”. Infine, quanto alla possibilità per il magistrato di effettuare contestazioni non concorrenti tra loro, ma alternative, si ritiene sia “configurabile il reato di usura o di estorsione a seconda che l’iniziale pattuizione usuraria sia stata spontaneamente accettata dalla vittima, ovvero accettata per effetto della violenza o minaccia esercitata dal soggetto attivo”; in altre parole, atteso che è possibile una contestazione congiunta degli artt. 629, 644 c.p., è altrettanto possibile che solo una delle due fattispecie ricorra nel caso concreto. Occorrerà, in proposito, prestare particolare attenzione alla libertà di scelta che, a monte della stipulazione del contratto e della pattuizione degli interessi, ha avuto il soggetto passivo in merito: se la sua libertà di scelta era assoluta, potrà essere contestato il solo reato di usura (salvo che quello di estorsione venga consumato in un momento successivo – al momento della restituzione degli interessi); se, al contrario, la libertà di scelta è stata coartata con violenza o minaccia – se, cioè, senza quella minaccia o quella violenza il soggetto passivo non avrebbe accettato la stipulazione di interessi usurari, o, pur accettandole, avrebbe acconsentito soltanto all’applicazione di un tasso d’interesse inferiore a quello effettivamente pattuito – ebbene, in tal caso ricorrerà la fattispecie estorsiva.

Una nota a margine, che però è tutt’altro che marginale. Si tratta, qui, di meglio evidenziare un aspetto comune all’usura e all’estorsione, e che va a costituire un punto di raccordo con quanto tra poco si continuerà a dire in tema di tutela delle vittime di siffatti delitti. Stante la gravità dei reati in questione, il legislatore si è premurato di garantirne il perseguimento indipendentemente dalla denuncia della vittima: si parla, perciò, di reati perseguibili d’ufficio, che si differenziano dai reati perseguibili a querela in quanto, in questi ultimi, in assenza della denuncia di parte non ci sarebbe la condizione prima e fondamentale per poter far partire il procedimento penale e, successivamente, poter sostenere un processo. Fatta questa precisazione, occorre osservare come – benché sia comprensibilmente difficile far sapere al mondo esterno di essere una vittima di simili reati – la denuncia costituisca, in realtà, il primo grande strumento che lo Stato offre alla vittima per reagire alla situazione che l’ha “fagocitata”: si chiede alla vittima di denunciare affinché possa essere messo in moto un meccanismo reattivo che è complesso e multiforme, in quanto caratterizzato dalla repressione delle condotte di usura e di estorsione, dalla loro sanzione e, per quanto riguarda più in concreto la vittima stessa, dalla possibilità per costei di accedere ad un Fondo di Solidarietà. Nello specifico, denunciando e quindi aprendosi la porta per l’accesso alle risorse messe a disposizione dallo Stato per tramite di tale Fondo – che costituisce un sistema di concessione del denaro solidaristico e legale – la vittima ha la possibilità di riparare e ristorarsi integralmente dal pregiudizio subito per l’aver dovuto restituire somme a tassi usurari o l’aver dovuto corrispondere somme soltanto perché costretti dall’altrui violenza o minaccia.

La disamina del Fondo – qual è stata l’evoluzione normativa in materia, quali erano in origine le differenti tipologie di fondi, qual è la sua attuale configurazione (alla luce degli ultimi interventi legislativi e regolamentari – è ciò che ci apprestiamo ad affrontare nel prosieguo del discorso.


[1] In particolare, è aggravata l’estorsione nella quale: la violenza è stata commessa mediante l’utilizzo di armi, oppure da persona travisata, o da più persone riunite; la violenza è consistita nel porre taluno in stato d’incapacità di volere o di agire; la violenza o la minaccia sono state perpetrate da persona facente parte di una associazione di tipo mafioso (anche straniera); la richiesta di tipo estorsivo è stata commessa in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa, o comunque in un luogo tale da ostacolare la pubblica o privata difesa; o è stata commessa all’interno di mezzi di pubblico trasporto; o è commessa nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro; o, infine, commessa nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.

[2] Utilizzando parole della Corte di Cassazione (sentenza n. 15564/2021), la rapina si differenzia dall’estorsione in virtù del fatto che in essa il reo sottrae la cosa esercitando sulla vittima una violenza o una minaccia diretta e ineludibile, mentre nell’estorsione la coartazione non determina il totale annullamento della capacità del soggetto passivo di determinarsi diversamente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto correttamente qualificata alla stregua di tentata estorsione la condotta dell’imputato, il quale aveva minacciato il proprio inquilino, sparando un colpo di pistola contro il muro, affinché gli corrispondesse anticipatamente il canone di locazione dell’immobile, mediante consegna di una somma di denaro che in quel momento non aveva con sé).

[3] Cass. Pen., sentenza n. 36928/2018.

[4] Va comunque segnalato che, in merito a tale elemento, sono state anche fornite ricostruzioni che ne prescindono, non essendo stata ritenuta essenziale, ai fini di demarcare i confini tra i due delitti, l’esistenza o meno di una legittima pretesa creditoria. Cfr. sul punto Cass. Pen. 35563/2019.

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