Testo unico: passi indietro dopo 30 anni dal sacrificio di Pio La Torre

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a cura dell’Osservatorio di Libera Piemonte

Approvazione del codice antimafia: cosa cambia per i beni confiscati

 

La storia dei beni confiscati ai soggetti condannati per associazione mafiosa inizia nel 1982, quando con la legge Rognoni – La Torre viene per la prima volta inserita all’intero del codice penale la definizione di “mafia” (art. 416bis) e vengono previsti il sequestro e la confisca di tutti i beni nella disponibilità diretta e indiretta del proposto, nei casi in cui vi sia notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati (sequestro) e per cui lo stesso non sia riuscito a dimostrare la legittima provenienza (confisca). Alla base di tale provvedimento l’intuizione che azzerando le risorse economico-finanziarie dei criminali l’azione di contrasto portata avanti dalle istituzioni risulta efficace mentre il radicamento sul territorio e il prestigio dei malavitosi appare sempre più ridotto agli occhi della società civile.

 

Successivamente a questa – che può essere definita la pietra miliare negli interventi di legislazione antimafia – sono stati approvati diversi decreti legge e leggi che hanno permesso di definire la destinazione dei beni confiscati e implementare il raggio d’azione della confisca nei confronti degli associati. Si tratta, in particolare, dei decreti legge 230/89 e 306/92 e della legge 55/90.

 

Il primo dei provvedimenti prevede la destinazione del patrimonio accumulato nel corso degli anni disponendo l’utilizzazione dei beni immobili per usi istituzionali o sociali sia attraverso il mantenimento degli stessi al patrimonio dello stato sia attraverso l’assegnazione degli stessi ad altro ente pubblico.

 

La legge 55/90 prevede la possibilità di sequestrare e confiscare i beni ai soggetti cui non sia possibile applicare una misura di prevenzione come i prestanome e i consulenti-consiglieri, i dimoranti all’estero o i soggetti investiti da misure incompatibili con la sorveglianza speciale.

 

Il decreto legge 306/92, convertito in legge 356/92 amplia maggiormente la possibilità di confisca slegando definitivamente la misura patrimoniale da quella personale e prevedendo che sia disposta la confisca per tutti i procedimenti conclusi con la condanna o il patteggiamento per i reati di associazione mafiosa, usura, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione, ricettazione, riciclaggio e violazione delle norme sugli stupefacenti.

 

La vera rivoluzione in ambito di gestione del patrimonio confiscato si manifesta solo nel 1996 quando viene promulgata la legge 7 marzo 1996 n. 109, che prevede il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla criminalità organizzata e la creazione di un fondo monetario atto a sostenere le attività all’interno dei beni confiscati e corsi di educazione alla legalità e alla cittadinanza.

 

A questa norma si susseguono una serie di leggi che prevedono che i proventi delle confische vengano utilizzati per il finanziamento di attività diverse da quelle previste dalla 109/96. Questo porta ad una disponibilità di risorse per l’amministrazione dei beni e per i corsi sempre minore e di fatto, all’indebolimento del fine ultimo della norma: il riutilizzo sociale.

 

In seguito alla promulgazione di ogni nuova norma non sono mancate critiche volte al miglioramento dello strumento legislativo, mozioni rimaste spesso inascoltate: è questo il caso delle richieste avanzate sin dal 1982 per ottenere la riorganizzazione normativa in un codice antimafia e un organo unico per la gestione dei beni confiscati.

Parte di queste richieste sono state esaudite con la legge 31 marzo 2010, n. 50 che ha permesso l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati: soggetto unico competente nella gestione dei beni dalla fase di sequestro a quella di destinazione. La legge ha inoltre previsto un risarcimento per i soggetti comproprietari di beni immobili confiscati non divisibili, ma solo nella misura della disponibilità delle risorse disponibili al momento dell’indennizzo. La stessa norma detta la disciplina relativa alla vendita dei beni di cui non sia stato possibile disporre una destinazione nell’arco massimo di 180 giorni.

Lo scorso 13 ottobre è entrato in vigore il codice antimafia che oltre ad accorpare ed ordinare le norme che nel tempo di sono susseguite in materia di mafia ha modificato alcuni aspetti cruciali nella gestione dei beni.

Due in particolare i punti nodali: il periodo massimo che deve intercorrere tra la data del sequestro e quella della confisca e il risarcimento dei soggetti cui sia stato confiscato un bene di cui sia stata poi disposta la restituzione.

 

Per ciò che riguarda i tempi di completamento del procedimento di confisca stabiliti in 30 mesi (18 + due proroghe da 6) appaiono troppo limitati (art. 24, co.2), così come il limite di 18 mesi per la decisione della Corte per i casi in cui venga presentato ricorso in appello (art. 27, co.6). Il rischio più accreditato è che i beni tornino nella disponibilità dei soggetti cui sono stati sottratti, vanificando così il lavoro svolto dalle forze dell’ordine e dalla magistratura.

 

In merito al risarcimento dovuto al soggetto che si è visto confiscare erroneamente un bene (art.46) la legge dispone che nei casi in cui non sia possibile restituire l’immobile poiché questo potrebbe pregiudicare l’interesse pubblico, deve essere corrisposta al proprietario una somma equivalente alla valutazione del bene, al netto delle migliorie. La stessa prassi è da seguire nel caso in cui il bene sia stato venduto anche prima della confisca definitiva.

Le somme devono essere corrisposte dal Fondo Unico Giustizia nel caso in cui il bene sia stato venduto e dall’amministrazione assegnataria del bene in tutti gli altri casi.

 

Il problema che si pone è legato alla corresponsione delle somme: in un momento in cui i fondi a favore delle istituzioni vengono tagliati il rischio di vedersi sottrarre altre risorse non è certamente un incentivo per i potenziali destinatari di beni. La norma genera una catena di conseguenze che vede, ad ultimo, la mancata assegnazione dei beni confiscati e dunque la non realizzabilità dei progetti di riutilizzo, riportando dunque la situazione a più di vent’anni fa quando il patrimonio confiscato era immobile sotto ogni punto di vista.

 

Il nuovo e tanto atteso codice ha tralasciato tuttavia diversi punti su cui da tempo viene chiesta maggiore chiarezza – dove non ha creato norme che rischiano di danneggiare ulteriormente il sistema, come detto poc’anzi – tra questi una disciplina che regoli il problema delle ipoteche e un ambito che verifichi l’effettiva attivazione dei progetti di riutilizzo.

Non resta che sperare che il legislatore metta mano al codice per ovviare alle mancanze evidenziate e trasformare l’opera in quello strumento di contrasto efficiente ed efficace tanto invocato dagli addetti ai lavori, dal mondo dell’associazionismo antimafia e dalla società civile.

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