a cura del Presidio Cassarà, per l’Osservatorio di Libera Piemonte
Eccoci tornati con la parte conclusiva dell’intervista al Prof. Vannucci.
Uno degli slogan comuni alle proteste riconducibili alla cd. Primavera araba è stato quello che accusava i governanti di essere un pugno di ladri. In molti di questi Paesi, infatti, alla domanda di maggiore libertà e di dimissioni della classe politica attuale si è affiancata la richiesta di porre fine ad una corruzione dilagante, non solo nella sfera politica ma anche al livello della pubblica amministrazione. Il pensiero moderno ha evidenziato che tale concentrazione sembra caratterizzare le società non ancora pienamente democratiche e dotate di una struttura elitaria. Una delle lezioni che l’Italia può trarre dalle rivolte della Primavera araba, dunque, ci sembra consistere nel ricordare che è al livello dell’amministrazione che i processi democratici infliggono i più gravi colpi alla corruzione, attraverso la trasparenza, la responsabilità amministrativa ed il principio di legalità.
Quali passi restano ancora da fare in Italia da questo punto di vista? Quanto è distante la situazione dell’amministrazione pubblica del nostro Paese rispetto a quella dei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente nei quali si sono recentemente sviluppati questi moti.
Le vicende della “primavera araba” sono interessanti sotto molti profili. La corruttela di quei regimi ha rappresentato sicuramente uno dei fattori scatenanti le rivolte popolari. Paradossalmente, è probabile che a fronte dell’emergenza profughi qualcuno nelle cancellerie occidentali, in Italia in particolare, abbia rimpianto persino le rassicuranti figure degli autocrati Ben Alì a Mubarak, nonostante la loro conclamata vocazione “cleptocratica”. E’ ancora in corso la “caccia al tesoro” dei loro conti correnti esteri, dalla tonnellata e mezzo di lingotti d’oro che la moglie di Ben Alì avrebbe razziato subito prima della fuga, ai circa 40-60 miliardi di dollari nascosti da Mubarak nelle casse svizzere. Si tratta dei proventi di una “corruzione istituzionalizzata”, un meccanismo di sistematica spoliazione della ricchezza prodotta nei loro paesi, tenuti sotto il tallone di regimi fondato sulla cancellazione dei diritti politici e civili, a esclusivo vantaggio di una ristretta oligarchia. Questi regime “forti” – robusti anche nell’organizzazione “verticistica” della corruzione – hanno però garantito per decenni un “ordine” interno che, nel gioco di sponda con le autorità occidentali, si traduceva nel controllo dei flussi migratori via mare. Tra le libertà che i nuovi governanti in cerca di legittimazione hanno dovuto assicurare ai propri cittadini, c’è anche quella di tentare la fuga nel “paradiso” del benessere occidentale. Dietro ai barconi dei migranti c’è però anche un nuovo modello di corruzione “dal basso”: i poliziotti tunisini che dovrebbero vigilare impedendo la partenza delle carrette del mare sono retribuiti appena 250 euro al mese, così per loro ci sono forti incentivi ad accettare le tangenti per “ignorare” le partenze dei barconi di disperati. Per tornare più direttamente alla domanda, il nesso tra inefficienza amministrativa e corruzione è molto forte. C’è una stretta correlazione, ad esempio, tra un indicatore della World Bank (Doing Business) sui tempi richiesti alle imprese per l’espletamento di certe procedure da parte della pubblica amministrazione e i livelli di corruzione percepita. Un’amministrazione pubblica che seleziona i propri funzionari in base a procedure meritocratiche, che applica nei propri processi decisionali i criteri di trasparenza, “soddisfazione degli utenti”, controlli di prodotto (e non formalistici), ad esempio, finisce per prosciugare il “brodo di coltura” della corruzione. Perché né i privati né gli agenti pubblici hanno più vantaggi indebiti e piccoli privilegi da promettere o richiedere – altrimenti persino l’avanzamento di una pratica può diventare un favore per il quale si è disposti a pagare – né vi sono sacche di opacità nelle scelte pubbliche che possano giustificare il ricorso alla corruzione. La nostra situazione, in base a quegli indicatori, ci pone “a metà strada” tra le democrazie occidentali avanzate e le realtà dei paesi in via di sviluppo. Nonostante le molte sbandierate riforme degli ultimi decenni restiamo in coda tra i paesi dell’Unione Europea e dell’Oecd per i tempi di risposta della macchina amministrativa e la vischiosità delle procedure.
Si è di recente concluso l’esame delle commissioni del Senato sulla ratifica della Convenzione Penale di Strasburgo del 1999 che agli artt. 7 e 8 sanziona la corruzione tra privati: secondo lei, perchè l’Italia non ha ancora provveduto alla ratifica e, inoltre, ci si può aspettare un’introduzione effettiva in breve tempo all’interno del nostro ordinamento giuridico? E come questo intervento legislativo potrebbe agevolare la lotta alla corruzione?
La mancata ratifica di quelle convenzioni internazionali non è che l’ennesima voce al passivo nel fallimentare bilancio delle politiche anticorruzione in Italia. Da oltre un decennio maggioranze di centrodestra così come di centrosinistra si sono “dimenticate” di ratificare quelle norme, visto che ne frattempo sembrava rimossa l’emergenza corruzione. Alcune di quelle disposizioni in effetti possono dotare i magistrati di strumenti più avanzati ed efficaci di contrasto della corruzione. Penso in particolare all’introduzione del reato di corruzione privata, al “traffico di influenza” (corrispondente a quelle forme ambigue di intermediazione e lobbying illecito frequenti in Italia, ma difficili da perseguire con le norme attualmente in vigore), alla possibilità di utilizzare “agenti provocatori”, ossia agenti di controllo che “mettono alla prova” l’integrità dei funzionari proponendo tangenti. Dopo tutta questa attesa sarei moderatamente pessimista sui rischi di un ulteriore insabbiamento, ma nonostante tutto spero che la pressione delle campagna anticorruzione di Libera e Avviso pubblico, il peso di quel milione e oltre di firme indirizzate al Presidente della Repubblica abbia la capacità di indirizzare a buon fine, e in tempi rapidi, l’iter legislativo.
Ci può dire cosa ne pensa del DDL anti-corruzione?
Il DDL anticorruzione mi ricorda uno spot governativo – piuttosto malriuscito, a giudicare dai tempi lunghi di approvazione – per rassicurare l’opinione pubblica sull’impegno dell’esecutivo in questo campo. Nella discussione in Parlamento si è provato addirittura a far passare il principio che l’Autorità anticorruzione – alla cui istituzione cui siamo vincolati dagli impegni internazionali – poteva essere costituita da un comitato ministeriale presieduto dal Presidente del consiglio dei ministri. Un organismo politico che avrebbe dovuto controllare la corruzione della classe politica: veramente geniale, nessuno al mondo aveva mai osato tanto. Poi dopo una retromarcia nell’ultima versione l’autorità anticorruzione diverrebbe la Civit, la commissione già esistente (è uno dei prodotti della legge-Brunetta) di valutazione della performance e della trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Un organismo che avrebbe comunque ben altro cui pensare. Insomma, quel disegno di legge al momento è un patchwork di norme eterogenee, privo di qualsiasi disegno generale che vada a incidere anche sul versante della prevenzione, che ha come unico elemento qualificante l’inasprimento delle sanzioni per i reati di corruzione. Ma dal momento che quelle sanzioni non le sconta quasi nessuno – il principale problema della repressione penale della corruzione nel nostro paese, come segnalano anche gli osservatori internazionali del Greco, è che la stragrande maggioranza dei procedimenti penali finiscono con un nulla di fatto a causa della prescrizione – l’effetto deterrente di questo inasprimento sarà tendenzialmente nullo.
Molto semplicemente, nella teoria si parla di “costi morali” per descrivere in modo sintetico l’effetto di tutte quelle variabili di natura “socio-culturale” che incidono sulla propensione degli individui a ricorrere alla corruzione, proponendo o accettando tangenti. I costi morali riflettono le convinzioni interiorizzate, le barriere etiche alla corruzione che nascono dall’adesione a un sistema di valori che vede nel “senso dello Stato” o nel “senso civico”, nello spirito di servizio verso la collettività i principi ispiratori dell’attività degli amministratori pubblici. Naturalmente questi valori trovano espressione anche nei criteri di riconoscimento coi quali le scelte individuali sono giudicate dalle cerchie sociali cui ognuno di noi guarda per valutare gli effetti delle proprie azioni: la paura dello stigma sociale, della condanna dei nostri pari, delle persone il cui giudizio riteniamo importante (i colleghi d’ufficio, i compagni di partito, i colleghi imprenditori, ecc.), rappresenta in effetti un ulteriore, potente meccanismo di dissuasione della corruzione. I costi morali sono una variabile importante per capire la diffusione di queste pratiche. Come spiegare che, a parità di opportunità, quando il guadagno economico atteso della corruzione è più o meno simile, in alcune società la partecipazione alla corruzione sia massiccia, in altre invece la maggior parte degli amministratori tenga ferma la propria “integrità”? La diversa distribuzione dei costi morali – e il loro valore medio in un certo paese – può spiegare le marcate differenze nella diffusione della corruzione (percepita) in paesi che pure hanno istituzioni, meccanismi di controllo, livelli di intervento pubblico assai simili, e dunque dovrebbero presentare una struttura di opportunità pressoché analoga. Ad esempio, l’abisso che separa i paesi scandinavi, percepiti come i più immuni alla corruzione del mondo, e l’Italia, che invece lamenta livelli di corruzione percepita superiore a Ghana, Tunisia e Botswana, sembra difficilmente spiegabile in termini di un mero calcolo dei vantaggi economici attesi. In quei paesi lo Stato interviene massicciamente nella vita economica e sociale, gli agenti pubblici esercitano ampi poteri, i sistemi di controllo giudiziario e amministrativo sono analoghi a quelli presenti in Italia. Probabilmente a segnare la differenza entra qui in gioco questa variabile “culturale”: semplicemente, in quei paesi i “costi morali” sono mediamente più alti. Si possono elaborare ed attuare diverse misure e politiche finalizzate a innalzare il livello dei costi morali. Come tutti gli interventi che cercano di incidere su una variabile profondamente radicata nel tessuto dei valori sociali possiamo aspettarci però che i gli effetti non siano immediati, ma si producano in un orizzonte temporale più ampio: anche gli orientamenti culturali cambiano, ma ben difficilmente dall’oggi al domani. Si tratta di un “investimento etico” che richiede tempo e pazienza, ma può produrre effetti robusti e duraturi. Proprio per questo mi sembra più che mai necessario nel nostro paese. Campagne di sensibilizzazione, corsi di formazione dei funzionari pubblici, e – anche nelle scuole e nelle università – attività di promozione della cultura della legalità, come quelle da anni portate avanti da Libera, sono esempi significativi di strumenti che possono incidere nel corso del tempo ad innalzare la soglia di sensibilità “etica” dei cittadini e dei futuri amministratori, rendendo l’adesione alla corruzione al tempo stesso meno desiderabile individualmente e socialmente più deprecata.