Mauro Rostagno: la lotta alla mafia è gioia di vivere

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La sera del 26 settembre del 1988, a Valderice in Provincia di Trapani, venne assassinato Mauro Rostagno. Sociologo, giornalista, torinese di nascita e cittadino del mondo, fu ucciso perché stava svelando gli intrecci tra mafia, politica e massoneria a Trapani. Furono i vertici di cosa nostra a volere la sua eliminazione perché lo considerava “‘na camurria”. 

Vogliamo ricordare Mauro, oggi, con l’immagine del murale a lui dedicato a Torino. Un’opera, pensata da ragazze e ragazzi delle scuole superiori, che sorge accanto alla piazza a lui dedicata. 

Per comprendere la grandezza di questo uomo, fermato dal piombo mafioso, pubblichiamo una delle sue ultime interviste, raccolta da Claudio Fava nell’agosto del 1988.

Ciao, Mauro. 


C’è un pezzo di Sicilia annegata tra le viti e gli ulivi. Un’antica fattoria con i muri di pietra bianca e una fila di pini con i rami impudicamente intrecciati.

C’è una piccola terrazza, sul tetto della fattoria, da dove puoi misurare la vastità della campagna, i campi seminati a grano e la montagna di Erice, in fondo alla valle.

Quando non soffia lo scirocco, se guardi verso il mare riesci a vedere l’isola di Favignana, lontana e impalpabile come in un incubo.

C’è un uomo, davanti a me. La barba chiazzata di bianco, gli occhi mansueti che scrutano con curiosità, un nome impegnativo ed evocatore: Mauro Rostagno.

La sua vita, in fondo, sta tutta nelle dimensioni d’un epigramma: la fabbrica di Torino, i Quaderni Rossi, Trento, il Sessantotto, Renato Curcio, Lotta Continua, i processi, il circolo Macondo.

L’India, infine, con l’anima che si tingeva di arancione.

E adesso la Sicilia.

Oggi Rostagno a Trapani significa alcune cose ben precise: la più grande comunità per tossicodipendenti dell’isola, l’unica televisione siciliana che sia disposta a fare giornalismo militante contro la mafia, il gusto della denunzia e della sfida.

Soprattutto un vento nuovo, che non odora di scirocco: l’ultimo guizzo di dissacrante fantasia di Mauro Rostagno, classe 1940, professore di sociologia, rivoluzionario in congedo.

E allora, Rostagno, vent’anni fa scrivevi sui muri di Trento “l’immaginazione al potere”. Cosa c’entra con la lotta alla mafia?
Sono la stessa cosa. Ed esprimono l’identica esigenza: la gioia di vivere. Vedi, agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie… quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile…

Oppure?
Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi…

Sfidi il vento…
Sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione… La mafia ti umilia: calati junco che passa la piena, dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione d’una parola un po’ borghese…

Dimmela…
La dignità dell’uomo! Io voglio avere la possibilità di guardare una persona negli occhi e dirgli di sì o di no con la stessa intensità. E la mafia questo non te lo consente.

Che ruolo può giocare l’immaginazione contro la mafia?
La mafia è un gioco finito, come il calcio: uno vince e l’altro perde. Io credo invece che vadano cambiate le regole del gioco.

Ma tu ti sei dato regole?
Certo!

E le rispetti?
No, naturalmente…

Le disprezzi, allora…
Semplicemente le trasgredisco. E quando mi accorgo di averle trasgredite molte volte, le cambio.

Rostagno, vent’anni dopo sono cambiate soltanto le regole?
E’ cambiato anche il gioco. E’ avanzato il degrado dell’ambiente, è peggiorata la qualità della vita, la mafia è diventata infinitamente più forte…

Perché?
Perché si! E poi perché si è trasformata in mafia imprenditrice. Adesso si dice anche in televisione, grazie a uno come Ferrara: la mafia è la diciottesima potenza al mondo…

Un grande fratello?
Non ancora. E’ più forte di prima e basta: nei partiti, nelle banche, nella cultura… Da queste parti, per esempio, ci sono ancora quattro paesi dove ti possono ammazzare durante un comizio e nessuno ammetterà mai di aver visto qualcosa.

Quali sono?
Sono Paceco, Santa Ninfa, Alcamo e Castellammare.

E la gente, Rostagno?
C’è qualcosa di nuovo. I semi dell’opposizione, lanciati molti anni fa da uomini come Placido Rizzotto, stanno maturando. C’è un filo, con quel passato, anche se questo filo ha perso la bandiera rossa: oggi la lotta alla mafia è più semplicemente una lotta per il diritto alla vita. La mafia è sopravvivere, l’antimafia è vivere…

E tu come lo racconti tutto questo alla gente? Parlaci del tuo giornalismo…
Anzitutto c’è la denunzia: il degrado politico, la partitocrazia, la corruzione, le solite cose… Poi c’è la scelta di non fare televisione seduti dietro a una scrivania ma proiettati in mezzo alla gente, con un microfono in pugno, mentre i fatti succedono… Sociologicamente si chiama “primato dell’esistenziale del teorico”: e già questo, a Trapani, è profondamente antimafioso.

Quanti telegiornali mandate in onda ogni giorno?
Facciamo due notiziari. Parliamo dei bambini e dei mafiosi, della spazzatura e dei poeti. La copertina la dedichiamo sempre a storie che non hanno mai avuto dignità di notizia nei telegiornali tradizionali.

Per esempio?
Entriamo in asilo e raccontiamo quello che sta succedendo, parliamo con i bambini, con le maestre… Scegliamo tutto a caso perché non vuole essere una notizia, è solo un pezzo di vita.

Il vecchio gusto della provocazione…
Facciamo solo un’informazione che non informa…

Ma Rostagno che c’entra la Sicilia?
Tu sei siciliano solo a metà perché ci sei nato. Io invece l’ho scelta, questa terra…

Probabilmente perché la Sicilia è una grande metafora. Anche della tua storia, del tuo Sessantotto…
E’ una metafora, ma anche qualcosa in più… Vedi, vent’anni fa la scelta era tra l’oriente e occidente, fra l’America e l’India. Oggi la polarità tra nord e sud: ecco, andare al sud è un viaggio dentro l’anima, dentro le sue radici… E poi in questa terra vale una regola semplice e antica: laddove si produce tanto male, si produce anche un bene molto forte. Dove c’è sofferenza, ci sono anche i migliori anticorpi…

In comunità ti chiamano Sanatano…
E’ un nome indiano, vuol dire eternità.

Hai trascorso tre anni in India con i Saniasi, gli “arancioni”. Cosa ti è rimasto dentro?
Ho incontrato un uomo a cui ho voluto molto bene. Si chiamava Rajneesh Bhagwan e mi ha detto: adesso tu pulirai i cessi, e fallo con amore perché pulendo fuori ti pulisci dentro.

E tu?
Ho pulito cessi.

Rostagno sorride e si striglia un po’ la barba. Sorriso ingenuo, e d’improvviso mi trovo a pensare che questo signore vestito come un vecchio anarchico dell’Ottocento, con gli occhi mansueti e le sue riflessioni sagge e cortesi, mi sta semplicemente prendendo per i fondelli.
Mi pento subito, vecchio compagno Rostagno, d’un dubbio così vile: e ti rivedo sulla strada di Pizzolungo, appoggiato al cippo che ricorda le vittime dell’attentato a Carlo Palermo.
Docilmente in posa per la fotografia, con quel lampo di profonda solitudine negli occhi. In quell’attimo m’eri sembrato improvvisamente vecchio e stanco: forse c’erano molte cose da raccontare, quella lapide di bronzo e le troppo rivoluzioni mancate, i giudici e i reduci, i morti, le follie, i rimpianti…Ma non ne avremmo avuto il tempo: solo un’ultima foto, la macchia bianca della tua camicia, il mare di Trapani color piombo, questo lieve sentore di alghe marce nell’aria.
E allora Rostagno, da uomo a uomo, dov’è la vera rivoluzione: vent’anni fa con Lotta Continua oppure oggi a Trapani, con la tua piccola emittente locale?

Qui, a Trapani…

Perché?
Le tensioni che mi sentivo dentro nel Sessantotto culturalmente possedevano già un vestito, la rivoluzione. E avevano pure una biancheria intima, l’ideologia marxista… Tutto il movimento di quegli anni è stato una grande emersione di nuovo che si vestiva di vecchio. Non siamo neppure riusciti a inventarci un linguaggio: usavamo parole antiche, terrificanti, inutili…

E adesso?
Adesso questa cosa non la chiamo più rivoluzione, non ci vedo più alcun rapporto col marxismo. Però la vivo come una sfida molto più impegnativa: è la vita, il diritto di vivere…

E anche gusto di trasgredire, immagino… Vent’anni fa avevi regole molto più rigide.
Vent’anni fa non ti avrei mai detto queste cose.

Rostagno, ti senti solo a Trapani?
All’inizio c’era solitudine. Oggi è tutto molto più schematico: c’è solidarietà e opposizione.

L’opposizione come si manifesta?
In modo molto rozzo, con le minacce. Ma anche in modo intelligente, con il silenzio: opposizione burocratica, i cento cavilli che la Regione inventa per non riconoscere la nostra comunità Saman. Aspettiamo da otto anni…

E il tuo passato?
Lo tirano fuori ad ogni occasione: ex brigatista, ex drogato… tutte cose di cui mi vanto. C’è un medico, in Germania, che ha scritto una cosa molto bella: ognuno di noi ha preso, prende o prenderà una droga. Ma questo non fa di noi dei tossicomani.

Perché hai messo in piedi questa comunità?
Noi non siamo contro la droga o contro l’alcolismo… Noi non siamo contro nulla. Se tu ti fai, e sei contento, non ho niente da dire. Se invece vieni qui e mi dici: guarda, mi sono rotto i coglioni, è una vita di merda, non ne posso più… mi dai una mano a uscire dall’eroina? Allora io ti aiuto!

Come ti comporti quando qualcuno dei ragazzi ti dice che vuole andar via per una settimana?
Facciamo una sfida da popolo degli uomini: una settimana? No, gli dico io, torna fra dieci giorni. E non starò mai a controllare se quando esce si fa o no… E’ una differenza importante rispetto alle altre comunità: qui non siamo in caserma.

E i ragazzi tornano?
Sempre! La comunità Saman è strutturalmente antimafiosa perché  è fondata su un patto fra uomini liberi.

Eppure la Regione Siciliana non vuole riconoscervi…
Perché abbiamo preso con noi anche un paio di pazzi e qualche alcolizzato. E poi perché qui chi ne ha voglia può fare l’amore.

Solo per questo?
Perché offriamo un modello di vita consumistico, dicono… Abbiamo una piscina, alleviamo i pavoni, coltiviamo i fiori, balliamo: e allora? Per i burocrati della regione è solo uno spreco, una provocazione. Ed è lì che mi fanno incazzare: siccome qui ci stanno i tossicodipendenti, dovremmo andare avanti a pane e mortadella! Il loro modello è il lager come San Patrignano, bei casermoni stile Fiat e magari uno alla Muccioli che dice sempre parole solenni: i valori del lavoro, la dignità, il rispetto, viva i magistrati…

E tu, a questi ragazzi, cosa dici?
Io credo che i drogati siano belli: se ne sono andati a guardare la morte in faccia ma sono andati anche molto lontano, dove non è permesso… una trasgressione, bada bene, che a me esteticamente non piace: ho provato tutte le droghe del mondo ma non mi sono mai fatto una “pera”. Non mi piace l’intrusione chimica…

Quanti ragazzi sono passati dalla comunità?
Milleduecento. Adesso ne abbiamo una cinquantina e ci costano un miliardo l’anno. Come facciamo? La mia compagna ha appena finito di firmare ottocento milioni di cambiali.
E’ l’ora del “gruppo”. I ragazzi sono scalzi ed hanno facce liete. Qualcuno ride forte. Rostagno si rifugia dietro un giradischi, la musica scivola fuori e i ragazzi cominciano a muoversi. Sono balli semplici, lunghi cori a denti stretti, la voce sommessa di “Sanatano” che guida i loro movimenti, poi ancora risate ingenue, braccia spalancate, l’emozione di riappropriarsi della vita. Balla pure Vincenzino, che si trascina dietro i suoi ottant’anni e accarezza con lo sguardo le ragazzine.
E’ un’ex guardia di finanza. Stava solo, beveva, non sapeva dove andare a dormire… Che avrei dovuto fare?

L’ultima curiosità: perché vesti sempre di bianco?
Per farmi fare questa domandina dagli altri

E come rispondi?
Dipende da chi ho davanti. Per esempio, perché il bianco è il colore dei riti di passaggio. Oppure, perché consente di vedere subito se sei sporco. Bianco perché siamo infermieri…

Una risposta per me, Rostagno…
Vendo gelati, io… Come vuoi che mi vesta?