Con l’approvazione al Senato del “decreto sicurezza“, nell’articolo 36 si liberalizza la vendita ai privati, con aste pubbliche, dei beni confiscati ai boss.
Dieci anni dopo l’ipotesi avanzata dal governo Berlusconi che propose con un emendamento alla legge finanziaria per il 2010 la vendita dei beni confiscati e poi bloccata grazie alla mobilitazione del mondo associativo e di migliaia di cittadini, si ritorna sul luogo del delitto, presentando una proposta che rischia di fare un grosso passo indietro nel contrasto patrimoniale alle mafie e ai corrotti, in particolar modo dando un messaggio culturale che va in direzione opposta a quello testimoniato dall’impegno civile e responsabile rappresentato dal riutilizzo per finalità pubbliche e sociali.
Nel 1995 furono oltre un milione i cittadini che firmarono la petizione per l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati ai mafiosi e ai corrotti. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all’unanimità – seppur monca a causa dello stralcio della parte relativa ai corrotti – la legge n.109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l’impegno per sottrarre ai clan i loro patrimoni.
Nel 2012 nuovamente decine di migliaia di cittadini firmarono la campagna “Io riattivo il lavoro” – promossa dai sindacati – che chiedeva l’approvazione di un disegno di legge di iniziativa popolare per tutelare il lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate, poi confluito nella riforma complessiva del codice antimafia del 2017.
Oggi, la previsione della vendita alle condizioni contenute nel decreto governativo porterà il rischio ad arrendersi di fronte alle prime difficoltà legate alle diverse criticità territoriali ed a volte alla mancanza di informazioni adeguate e di progettualità condivise. Del resto la vendita era già possibile ad alcune categorie di soggetti, come extrema ratio e come tale deve essere considerata e non una scorciatoia per evitare le problematiche che si riscontrano nella destinazione e assegnazione dei beni.
C’è, infatti, la forte preoccupazione che, senza cautele e controlli adeguati, i beni messi all’asta non solo siano venduti a prezzi svalutati (chi in certe zone avrà il coraggio di partecipare all’asta per la villa del boss locale?), ma che l’acquisto possa essere realizzato attraverso prestanomi dalla faccia pulita.
Oltretutto il decreto prevede che i proventi della vendita siano utilizzati solo per il 20 per cento per le funzioni dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata. La parte maggiore va ai Ministeri dell’Interno e della Giustizia. Una linea di tendenza che di fatto fa venire meno lo spirito della legge: le ricchezze rubate alla comunità devono essere restituite alla comunità, in un’ottica risarcitoria.
Un provvedimento che di fatto rappresenta un attacco a quel “maltolto” che diventa “bene comune” e crea opportunità rappresentando il segno del riscatto di un’Italia civile e responsabile, onesta e coraggiosa. Le oltre 800 realtà dell’associazionismo, del volontariato e della cooperazione sociale assegnatarie di beni immobili confiscati, infatti, distruggono “il capitale sociale” delle mafie e sottraggono ai boss lo strumento del consenso.
Un impegno sociale che negli anni ha trovato il consenso invece del Belpaese.
Secondo l’ultima ricerca di Liberaidee sulla percezione e la presenza delle mafie e della corruzione, su un campione di 10mila persone, per oltre otto intervistati su dieci i beni confiscati sono percepiti come una risorsa per il territorio, capace di portare benefici all’intera comunità locale. Per quel che concerne le opinioni relative a quale debba essere l’utilizzo dei beni confiscati, secondo i rispondenti dovrebbero essere destinati in misura prioritaria a cooperative orientate all’inserimento lavorativo dei giovani (31%), alla realizzazione di luoghi pubblici di aggregazione e di educazione alla cittadinanza (23,5%) e solo il 4,4% ritiene utile venderli per incrementare le casse pubbliche.
«Questi terreni appartenevano a Totò Riina»; «Bernando Provenzano era il padrone di questo vigneto»; «Questo agriturismo è dedicato alla memoria del piccolo Di Matteo ucciso barbaramente». Poter oggi ascoltare queste frasi, pronunciate ad alta voce dai tanti giovani impegnati nelle realtà che gestiscono i beni confiscati, significa rendersi conto di quanta strada sia stata fatta, nel solco della memoria delle vittime innocenti della violenza criminale e mafiosa. Ventitré anni fa nessuno si sarebbe immaginato che qualcuno le potesse pronunciare.
La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle Istituzioni. Insomma, un vero regalo alle mafie e ai corrotti.