Il ruolo dei collaboratori di giustizia. Un confronto tra Italia e Argentina

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Il 20 maggio 2010 si è tenuto a Torino, presso la fabbrica delle “e” , un seminario organizzato da Libera Piemonte e dall’associazione Ponte della Memoria su “il ruolo dei collaboratori e testimoni di giustizia”.

Un approfondimento tra esperienze parallele di Italia e Argentina, partito dai processi di mafia nostrani e giunto a quelli di lesa umanità sudamericani.



Dall’Argentina sono giunti a Torino Carlos Alberto Rosanky Giudice Federale di La Plata, Gabriele Andreozzi dell’Associazione Ponte della Memoria e Valentina Giorda di Libera Internazionale. Da Roma Anna Canepa dell’Associazione Nazionale Magistrati, affiancata da Francesco Gianfrotta appartenente alla medesima associazione, ma di provenienza torinese. Sono intervenuti anche Roberto Arata per Magistratura Democratica, Giuseppe Castronovo Presidente del Consiglio Comunale della Città di Torino e Ugo Zamburu per Arci Torino.

Dopo presentazioni e saluti Arata ha aperto il seminario descrivendo con orgoglio la possibilità che l’esperienza italiana della lotta al terrorismo degli anni ’70 e quella sempre attuale della lotta alla mafia possa essere utilizzata e guardata come guida per paesi come l’Argentina che da pochi anni ha trovato la forza e le condizioni per riaprire i processi sui crimini commessi dalla dittatura militare tra gli anni ’70 e ’80.


Specificando le differenze fondamentali tra le due esperienze nazionali si è partiti da una base comune secondo cui l’utilizzo di testimoni e collaboratori sia assolutamente indispensabile, poiché non esiste alternativa per la società che subisce gli effetti di un’associazione criminale segreta se non quella di farsela raccontare da coloro che ne erano cervelli, braccia o più innocentemente occhi. Sebbene ora possa sembrare scontata, la consapevolezza di tale utilità non è sempre esistita in Italia, e in Argentina vive oggi le stesse difficoltà: la paura della società civile che dei criminali rimangano impuniti si scontra con la ragion di stato tanto cara ai magistrati.

Coloro che hanno patito sopportano poco l’idea che i propri tormentatori possano pentirsi, e ancor meno quella che possano cavarsela accordandosi addirittura con la legge.


Francesco Gianfrotta, che da magistrato aveva vissuto gli anni di piombo, ha ricostruito il contesto storico durante il quale in Italia nacque la legislazione premiale del ’91, rivista nel 2001.

Dopo l’esperienza in Dda il magistrato Anna Canepa ha raccontato alcuni episodi della storia di questa legislazione.

Ha ricordato citando Buscetta quale sia la profonda diversità tra l’uso erroneo di derivazione religiosa del termine “pentito” e il termine corretto di “collaboratore”; ha messo in luce l’uso prolifico di una legislazione nata in Italia nell’ambito della lotta al terrorismo poi esteso alla questione mafiosa e i suoi effetti dirompenti; ha infine paragonato la legge del ’91 a quella del 2001 tratteggiandone luci e ombre: se da un lato la legge del 2001 introduce finalmente l’importante distinzione tra collaboratore e testimone di giustizia dall’altro subisce una burocratizzazione forzata dei rapporti ,che rimangono comunque umani, come quello tra giudice e pentito.


Gabriele Andreozzi ha illustrato la situazione attuale dell’Argentina: l’annullamento nel 2003 delle leggi su amnistia e indulto verso i crimini di lesa umanità. Nel 2005 la Corte Suprema argentina ha dichiarato incostituzionali tali leggi con una dichiarazione che il giudice Rosanky con commozione descrive pari a “un trattato sui diritti umani”.

Questa nuova stagione di processi ha riaperto una ferita profonda, ma lo ha fatto con intenti sanatori definitivi.


L’Argentina guarda all’Italia e tiene conto delle differenze. Se in Italia i terroristi o mafiosi erano in guerra con lo stato, in Argentina fu lo stato stesso -sotto l’aspetto di una dittatura militare- a pianificare lo sterminio sistematico di tutti gli oppositori regime.

L’Argentina guarda all’Italia ma ha dato vita a una legislazione con numerose lacune, che non riconosce la figura del collaboratore di giustizia; che sottopone i testimoni a un’esposizione eccessiva e li protegge affidandoli alla stessa polizia che era colonna della dittatura.

L’Argentina guarda all’Italia e vede somiglianze notevoli nella struttura gerarchica delle associazioni mafiose nella struttura militare della dittatura, nei rapporti sociali di carattere clientelare seguenti alla fine della dittatura.


L’Argentina decide infine i quattro punti su cui fondare la propria ricostruzione: la conoscenza della verità, la necessità di giustizia, il tentativo di riparazione e la coltivazione della memoria.

L’Italia guarda l’Argentina e se stessa oggi, e malinconicamente si chiede per quanto ancora la nostra legislazione antimafia sarà considerata all’avanguardia da altri stati.

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