Torino: sangue e milioni, nuovi e vecchi nomi

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Due inchieste che si intrecciano per scoperchiare un vasto giro di affari dal valore di oltre 20 milioni di euro. Torino come base operativa, la ‘ndrangheta, quella del sangue e degli affari, come modus operandi. Al vertice del sodalizio criminale un ‘ndrangetista noto in città come Domenico Marando, già assicurato alla giustizia ma in grado dal carcere di Rebibbia di condurre indisturbato gli affari di famiglia. E’ finito dietro le sbarre per un fatto di sangue risalente al 1997, quando a Volpiano, suo “regno”, nella villa di famiglia vennero uccisi Franco Mancuso, Antonio e Antonino Stefanelli. Una storia di lupara bianca, i loro corpi infatti non sono stati mai trovati. Una vendetta attuata a seguito dell’omicidio di Francesco Marando, trovato carbonizzato nel 96 in bosco di Chianocchio, in Val Susa.

Ora, per i tre omicidi, grazie all’operazione “Reverge 2”, sono state emesse cinque ordinanze di custodia cautelare nei confronti di Gaetano Napoli, Rosario Marando, Giuseppe Perre, Santo Giuseppe Aligi e Natale Trimboli accusati di aver preso parte all’esecuzione.


Il carcere come cabina di regia Dietro le sbarre eppure capace di governare l’impero costruito tra Torino e la Calabria. Domenico Marando non aveva appeso le “scarpette al muro”, non ne aveva alcuna intenzione. Aveva trovato il modo di comunicare con l’esterno, mandando messaggi ai parenti per imporre direttive utili alla gestione del patrimonio. Ad agevolargli il compito, un’educatrice del carcere di origine calabrese. A lei il ruolo di “postina” per recapitare i messaggi al fratello di Marando, Nicola e al geometra, nonché faccendiere di famiglia, Cosimo Salerno, entrambi tratti in arresto.


Un impero da 20 milioni di euro Ville, terreni, attività commerciali, auto di lusso. Questi le voci di bilancio che compongono i possedimenti dei Marando, da nord a sud. Un impero da 20 milioni di euro, costruito grazie all’intestazione delle proprietà a prestanome di fiducia. La Dia torinese è riuscita a ricostruire l’immenso patrimonio di famiglia grazie ad messaggio intercettato proprio a Marando, il quale insisteva sulla necessità di vendere alcuni appezzamenti a Bovalino per reinvestirli nel narcotraffico. L’indagine “Marcos” è riuscita a ricostruire lo schema messo a punto dalla ‘ndrina per riciclare il denaro sporco. A gestire il patrimonio un professionista, il geometra milanese Cosimo Salerno, in grado di creare nuove società, investire il denaro nel mattone, in aziende per la movimentazione terra, in bar e ristoranti. Grazie alle perquisizioni effettuate in Calabria, sono stati scovati anche 5 bunker utilizzati dagli ‘ndranghetisti latitanti.


Una storia diversa, i soliti noti Pronunciare il nome dei Miano in Piemonte è come evocare un pezzo di storia di mafia in questa regione. Prima dei calabresi, a Torino e provincia comandavano loro, i catanesi, con a capo Ciccio Miano. I “cursoti” hanno spadroneggiato per anni, si sono alleati con i Belfiore, si sono inabissati a seguito di inchieste che hanno portato in carcere i capi cosca. Ora, questo cognome ingombrante, ritorna nei racconti della cronaca torinese. Una settimana fa, grazie ad un’inchiesta per rapine ed estorsioni, ritorna a echeggiare il nome di Roberto Miano, fratello e braccio destro di Ciccio. Mario Sasso, famoso imprenditore edile di Pino Torinese, ricco paese collinare alle porte della città, si affida a Miano per risolvere dei contrasti con un suo ex dipendente. Secondo Sasso, il lavoratore, che si era licenziato dalla sua impresa, stava facendo cattiva pubblicità alla sua fama di affermato costruttore. Per questo andava fermato. Per farlo, l’imprenditore si è affidato proprio a Roberto Miano che ha portato a termine il compito. Per convincere l’operaio, Miano incarica i fratelli Trovato. I due portano l’ex dipendente nell’ufficio di Sasso e, tramite l’utilizzo della violenza, lo costringono a restituire i 12mila euro di liquidazione. Sasso ha raccontato alla magistratura di non conoscere la caratura criminale di Roberto Miano, per lui era un venditore di materiale edile. Un dubbio rimane: perché chiedere a Miano, un semplice impresario edile, di zittire l’ex dipendente?

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