Torino, la voce di Marando al processo Minotauro

Condividi

di Giuseppe Legato da narcomafie.it
Nello schermo al plasma che campeggia di fronte al presidente della Corte Paola Trovati, spunta una sagoma di spalle. E’ un uomo sulla quarantina, un po’ stempiato. Ha un maglioncino beige, spalle strette. Le mani congiunte sono appoggiate su una scrivania color mogano. Ci sono quattro telefoni anonimi, un microfono che fa le bizze, una parete bianca, fredda come Torino ieri mattina avvolta dalla nebbia. Il processo Minotauro contro le ‘ndrine calabresi radicate all’ombra della Mole, ha vissuto un’altra delle sue giornate decisive sulla strada che porta alla sentenza di primo grado. Rocco Marando, 43 anni, pentito chiave dell’inchiesta coordinata dalla Dda (pm Roberto Sparagna e Monica Abbatecola) parla per otto lunghe ore da una località protetta e riscrive la storia della sua dinasty familiare che ha governato il traffico di cocaina in Piemonte per almeno vent’anni seminando morte e terrore.

L’audio si anima alle 9.30. Ed è subito una Spoon River, una spirale inarrestabile di violenza “Sono nato a Plati il 9 settembre del 1969. Sono settimo di 11 fratelli, 8 maschi, tre femmine. Mio padre è stato ammazzato, i miei fratelli Gino, Francesco e Pasquale anche. Alfredo è morto in seguito a un incidente stradale. Domenico e Rosario si trovano in carcere, Nicola e le mie tre sorelle non fanno parte della società. Sono stato affiliato nel 1989 a Volpiano nel giardino della casa di Francesco Costanzo in una baracca. Si sono disposti a cerchio attorno a me. Mi hanno chiesto cosa andavo cercando, ho risposto: onore e sangue. Due mesi dopo ho sposato Caterina Perre”.

Il sequestro Casella

Il racconto di ventidue anni di ‘ndrangheta “attiva” è un amarcord criminale da saga televisiva che però – rispetto a quanto detto finora da Rocco ai magistrati – si arricchisce di nuove puntate. La prima: il sequestro di Cesare Casella. Rapito a Pavia il 18 gennaio 1988, fu rilasciato dopo 743 giorni di prigionia, riscatti e conflitti a fuoco tra i sequestratori e i corpi speciali. Aveva 18 anni e mezzo, il padre era proprietario di una concessionaria Citroen sulla statale Vigentina. Marando adesso svela che i preparativi del sequestro si sarebbero fatti a Volpiano: “Una sera arrivarono quattro persone di San Luca. Ci chiesero dei mobili per riempire il vano del camion, all’interno bisognava creare uno spazio per tenere il sequestrato. Lasciarono il mezzo vicino al bar Victory a due passi dalla Torino-Aosta. Stavamo mangiando, ci mettemmo al lavoro. Noi contribuimmo in questo senso e poi loro partirono verso Pavia e se lo portarono in Aspromonte. Non fummo gli unici: solitamente sui sequestri tutte le famiglie danno una mano”. Roba di 25 anni fa, un’eternità, un’altra ‘ndrangheta diversissima da quella di oggi. Preistoria.

La famiglia

“A mio padre spararono che avevo 11 anni. era il 1980. Lo uccisero proprio sotto casa. Cinque anni dopo me ne andai da Platì e raggiunsi i miei fratelli che erano arrivati a Volpiano da tempo”. Francesco, il più grande trafficava in cocaina ma il 3 giugno 1996 fu ucciso e bruciato”. Furono i carabinieri a fare la macabra scoperta a Chianocco. Il cadavere ritrovato nei boschi della Val Susa non può parlare. Il fuoco non ha risparmiato quasi niente se non i bossoli di una 7.65 col quale i sicari lo hanno freddato. E allora, in un epoca in cui non ci sono ancora i Ris e le investigazioni scientifiche sono agli albori, ci pensa un medico legale – Roberto Testi – a svelare il mistero. Sul comodino dell’obitorio accanto ai resti dell’uomo senza nome c’è anche un anello che ha resistito alle fiamme. E’ una fede nuziale con un’incisione precisa: “Maria. 09-06-1990”. Quella Maria è Maria Stefanelli, 26 anni all’epoca, figlia di Antonino Stefanelli, originario di Oppido Mamertina, capo della locale di Varazze in Liguria, sorella di Antonio rampollo emergente della famiglia e moglie del morto: Francesco “Ciccio Marando. Secondo Rocco “sono stati proprio loro a uccidere Francesco e noi poi ci siamo vendicati ammazzando loro”. La mattanza degli Stefanelli si consuma a Lombardore, in casa del fratello maggiore Domenico Marando che oggi sta scontando l’ergastolo nel carcere di Rebibbia. Rocco rimette il timbro su una sentenza già emessa. “Fu Domenico che li uccise e poi trasportò i cadaveri in località Vauda a Volpiano. Probabilmente li hanno bruciati”.

Morti chiamano morti. In quegli anni due cognati del fratello più carismastico della famiglia, Pasquale, scompaiono, di colpo, nel nulla. Si tratta di due dei quattro fratelli di Anna Trimboli, moglie di Pasqualino “Il vangelista” (massimo grado delle ‘ndrine calabresi). Secondo Rocco, il fratello sarebbe entrato nel mirino dei congiunti degli scomparsi: “Lo hanno ammazzato loro pochi mesi prima che entrasse in vigore l’euro. Mi ricordo che Pasquale ricevette una telefonata da uno dei “Perre”. Gli parlò un pomeriggio intero e lo convinse a scendere a Platì per chiarirsi coi suoi cognati”. Partì e non tornò più. “Un pomeriggio ci chiamò mio fratello Rosario. Io ero a Volpiano insieme a Nicola. Ci disse: venite giù subito a Gioiosa Jonica. Partimmo immediatamente e lo raggiungemmo a casa di Giuseppe Aquino. Lì, ci diede la notizia: Pasquale è stato ucciso”. Chi lo uccise? “I suoi cognati, io so che è stato Saverio Trimboli detto Savetta (chiaramente per Trimboli nessuna chiamata in correità). L’omicidio avvenne in una casa del centro del paese” Il pm Roberto Sparagna intuisce che questo è un passaggio cruciale. La personalità di Pasquale Marando che gestiva contatti diretti con i narcos colombiani è troppo importante per non scavare nelle verità nascoste ancora sepolte dalla sabbia dell’omertà familiare. “Dov’è il corpo di suo fratello?” chiede il magistrato. Rocco farfuglia qualcosa, poi rivela: “Ce l’hanno loro i Trimboli e lo tengono nelle campagne a Platì. Noi glielo abbiamo chiesto indietro, ci hanno risposto che non ce lo avrebbero dato se non avessimo prima restituito quello dei due loro fratelli scomparsi”. Questa è la ‘ndrangheta.

Il tesoro dei Marando

La morte di Pasquale non è solo la caduta – tout court – di un totem assoluto, di un leader “che ancora oggi – racconta Rocco – coi suoi soldi, fa campare un sacco di gente al paese”. E’ anche, secondo il pentito, l’inizio della fine di un patrimonio, a suo dire, immenso: 60 miliardi di vecchie lire. “ Qualche giorno dopo la morte (di Pasquale Marando ndr) a casa di Pietro Portolesi – compare d’anello del boss, reggente della cosca dopo la sua morte e battezzato (affiliato all’onorata società) dallo stesso Pasquale nel carcere di Opera nel 1998 – si recò Michele Virgara, cognato di mio fratello Pasqualino e prelevò tutti i suoi soldi in contanti. Li portò a Gioiosa Marina da Giuseppe Aquino: si trattava di una cifra pari a circa 25 miliardi di vecchie lire”. Il racconto, contenuto nell’ordinanza dell’operazione “Crimine” condotta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri contro le ‘ndrine milanesi continua: “All’ufficio che mi chiede se Pasqualino abbia avuto delle proprietà immobiliari, rispondo affermativamente. Vi è un albergo denominato “Miramare” in Gioiosa Marina che attualmente è di proprietà di Giuseppe e Rocco Aquino; è proprio Rocco Aquino a dirigere tale albergo che è stato costruito con il denaro di Pasqualino Marando, quando mio fratello era ancora in vita. Anche gli Aquino hanno collaborato nelle spese di acquisto e ristrutturato tale albergo; se non erro tale albergo era in funzione prima del 2000?. Non basta: “Mio fratello Pasqualino – aggiunge Rocco – unitamente ad alcuni esponenti della famiglia Coluccio, aprirono un Bingo a Siderno Marina. Poi vi è un altro albergo in Roccella Ionica nel quale Pasquale ha partecipato nella costruzione. Lui è morto prima che l’albergo venisse completato”. Venti mesi fa l’albergo Miramare è stato posto sotto sequestro dalla Dda reggina. Quella dei Marando-Aquino era un’alleanza, a quanto pare, nata sui convergenti interessi nel mondo della cocaina. Un accordo che divenne amicizia secondo Rocco: “Quando Pasquale era latitante anche gli Aquino lo ospitarono oltre a Portolesi Pietro”. Quando però il pentito si rivolge alla famiglia di Gioiosa per chiedere che fine abbiano fatto i soldi del fratello arriva la risposta secca: ”Rocco Aquino mi portò a casa del fratello Giuseppe il quale mi comunicò che i conti con la famiglia Marando erano chiusi e che l’albergo era rientrato nella loro completa proprietà e ai Marando erano stati ceduti per equivalente degli appartamenti siti sul lungomare di Gioiosa Ionica. Io replicai all’Aquino che i conti non dovevano considerarsi chiusi, ma avrebbero dovuto aspettare che mio fratello Domenico uscisse dal carcere per poi definire le rispettive pretese”. Niente da fare. Questo il verbale di un anno e mezzo fa che Rocco, nell’impianto e con molte lacune, ha ribadito in aula questa versione nonostante la Cassazione lo avesse ritenuto non attendibile qualche mese fa. Una cosa si è capita: la guerra tra fratelli è generata, anche, dai soldi.

Fratelli contro

Da qui nasce il rancore del pentito verso il “maggiore” Rosario che ieri mattina era presente in aula. “Ce l’ho particolarmente con lui perché si è spartito il patrimonio di Pasquale con gli Aquino. Più volte in carcere mi ha detto che io non sono più un“Marando” e questo mi ha ferito molto. Non volevo soldi, ma ho chiesto conto perché tutti quei miliardi non erano nostri (dei fratelli) ma dei figli di Pasquale”. Salta fuori cosi un duello a distanza tra fratelli. Rocco racconta che “Rosario mi ha mandato un messaggio attraverso il cappellano delle Vallette don Piero. Mi consigliava di cambiare avvocato e ha mandato una lista di nomi. Mi sono rifiutato”. In sintesi: secondo il pentito fu un tentativo di farlo ritrattare. A quel punto Rosario chiede la parola dalle gabbie, il presidente gliela concede dopo aver scollegato l’audio del collaboratore di giustizia. “ Mio fratello non sta bene, è ammalato, ha problemi con l’alcool, è uno scomposto. Lo sanno tutti dottor Sparagna. E’ lui che mi ha cercato attraverso il prete chiedendomi soldi per ritrattare. Fino a qualche giorno fa ha telefonato alla mia famiglia, a mia moglie per dirgli che voleva 50 mila euro. Io gli ho offerto di tornare a casa, ma non gli ho mai chiesto di cambiare versione sui fatti. E questo perché la verità, caro dottor Sparagna – verrà fuori prima o poi e non mi t-o-c-c-h-e-r-à”dice facendo lo spelling della sperata assoluzione. Poi si siede e ascolta composto fino alla fine dell’udienza. Il parroco don Piero (che compare anche nelle intercettazioni per una presunta mediazione circa il trasferimento di Adolfo Crea dal carcere di Bologna a quello di Torino nel procedimento Minotauro), sarà sentito in lista testi per l’accusa nelle prossime settimane.

Addio ‘ndrangheta

“E cosa devo dirle dottore? La vita da pentito è difficile. Non mi è rimasto nessuno”. Pausa: Marando piange, singhiozza. “La madre dei miei figli (sua moglie Caterina Perre) se n’è andata. Non ho nemmeno parenti perchè mi hanno rinnegato. E’ difficile ma l’ho fatto per mio figlio. E’ arrivato dopo 10 anni di matrimonio. Mia moglie aveva perso due bambini durante la gravidanza”. Un figlio aspettato, sospirato insomma. “Un giorno ho capito che se fossi rimasto nella ‘ndrangheta lui avrebbe fatto la stessa fine mia. Sarebbe diventato uno ‘ndranghetista e lo avrebbero anche ammazzato. Oggi lui vive con me, sua mamma è tornata a Platì”. Anche la funestata storia della famiglia di Rocco avrebbe inciso sulle scelte recenti “Mio padre è stato ucciso, lui a sua volta aveva ucciso suo fratello. Gino, Francesco e Pasquale sono stati ammazzati”. Troppo sangue anche per Rocco: ”Non è facile glielo ripeto, ma vado avanti. Con loro ho chiuso”. Quest’attenzione per i giovani si ripercuote anche sui ventenni della famiglia: “I figli di mio fratello Domenico sono bravi ragazzi, non penso che siano nella ‘ndrangheta” dice.

Chi comanda ora

In mezzo a un fiume di dichiarazioni che hanno ricostruito la storia della famiglia Marando, il pentito Rocco si lascia scappare una frase destinata a finire presto sulle scrivanie degli inquirenti. Parlava delle famiglie collegate al locale di Platì: Agresta, Trimboli, Sergi “ci sono anche i Barbaro, sono loro che adesso vogliono prendersi il comando a Volpiano”. Nelle pieghe di Minotauro sono due gli appartenenti a questa famiglia ad essere finiti nelle maglie degli arresti. Si tratta di Pasquale e Giuseppe Barbaro. Il primo – detto “U Nigru” – viveva in Calabria “ed era il referente del locale di Platì a Volpiano. Affiliato quantomeno dal 2002 con un dote certamente superiore a quella di padrino (si legge negli atti). Un boss, a detta di Marando, di livello assoluto “tutti gli portano rispetto ed è perfettamente in grado di rimettere in piedi il locale”. Il secondo si chiama Giuseppe, detto “U Castanu”, partecipe della società maggiore, santista, affiliato almeno da 10 anni (sempre dagli atti). I carabinieri sono la lavoro. Si vedrà.

Marando-Varacalli pentiti diversi

A guardarli da fuori, questi due pentiti, sono decisamente diversi. Senza voler entrare nel merito dell’entità del contributo dato al processo, si può serenamente constatare come Varacalli, pur se con qualche difficoltà in più, è sembrato più convincente di Marando. Più preciso, un fisionomista autentico, quasi infallibile sui riconoscimenti fotografici. Un archivio di volti e date: citava l’anno di leva dei presunti affiliati che Sparagna gli mostrava dall’album del procedimento, sfogliava l’albero genealogico della famiglia di ognuno. Marando, figlio forse di una militanza meno lunga e meno attiva, ha perso per strada alcune foto, compresa quella di Roberto Romeo, l’0dontotecnico di Rivalta freddato nel 1998. Solo quando il pm gli ha rivelato l’identità dell’immagine è stato in grado di bollare l’0micidio: “Era il testimone oculare dell’omicidio Stefanelli, lo abbiamo cercato a lungo” dice, ma non ricorda il viso. Anche sulla struttura della ‘ndrangheta non ha saputo fornire una fotografia coerente con la letteratura odierna: “Voi lo chiamate locale, io non so di nessun locale, io la chiamo società. Voi li chiamate bunker io parlo di camere”. Doti? Gradi? Fiori? “L’unica dote, dottore, è l’obbedienza, altro non so dirle”. Gli avvocati della difesa, in aula, rumoreggiano. Qualcuno gli chiede se conosce il significato dell’asso di coppe nella simbologia ‘ndranghetista. Marando si stizzisce: “Vogliamo giocare a carte avvocato?”. E la famiglia Montalbano? “Di Montalbano conosco solo quello della televisione”. Diversi dunque. Tra i due, tra le altre cose, non c’è nemmeno un briciolo di stima. Rocco, in un vecchio interrogatorio del 2010, disse di Varacalli: “E’ uno che una volta dice una cosa e subito dopo ne dice un’altra”. Quando ha parlato poi di arcinoti avvocati che sarebbero stati incaricati di corrompere giudici per far uscire dal carcere il fratello Francesco, ha fatto fare un sobbalzo al presidente della Corte Paola Trovati: “Marando, lei sta dicendo cose gravissime. Specifichi in concreto come conosce questi presunti fatti. Altrimenti qui si cercano i titoli sui giornali e non è quello che serve in questo processo”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *